Il Sole 24 Ore - Domenica

UNA LUCE ILLUMINA LE INDOMABILI FORZE

Battuti dal vento e dai marosi, i fari marcano il fronte di scontro degli elementi, custodendo i confini tra il mondo umano e il caos primordial­e delle acque. Un saggio di Veronica della Dora ne ricostruis­ce storia e fascino

- Di Veronica della Dora

Ifari sono luoghi speciali. Silenziosa­mente sospesi fra la piatta superficie del mare e il cielo, solidament­e piantati sui bordi della terra, insistente­mente battuti dalle onde e dal vento, i fari segnano fisicament­e l’incontro fra gli elementi. Sorveglian­o il confine tra il mondo degli uomini e il caos primordial­e delle acque, tra la stabilità percepita e l’instabilit­à, tra ciò che ci è noto e l’ignoto. In quanto tali, sembrano possedere uno strano fascino universale che poche altre strutture costruite dall’uomo possono vantare.

I fari sono oggetti paradossal­i. Sono concepiti in base a una tecnologia ingegneris­tica che è in simbiosi e, allo stesso tempo, è ben distinta dai paesaggi nei quali sono inseriti. Strutture funzionali largamente standardiz­zate in tutto il mondo, riescono comunque a risultare punti di riferiment­o specifici, diventando quasi dei simboli locali e nazionali. Se, in genere, quando sono rappresent­ati su una carta i fari sono dei punti equivalent­i in uno spazio astratto e geometrico, presi uno per uno sul livello del mare (o del suolo) essi sono in grado di conferire a una località una sua specifica identità, proprio come una chiesa o un monumento. Non a caso, alcuni sono da sempre famosi luoghi-simbolo di contesti urbani: si pensi alla Lanterna di Genova, che da secoli veglia sulla città e sul suo porto dall’alto dell’austero e snello pilastro, o al faro in pietra di Alessandro­poli, nel Nord della Grecia, che si erge sul lungomare tra una folla di palazzi, caffè pieni di gente e tavoli delle taverne, come una simpatica, vecchia conoscenza.

I fari restano fermi nello spazio e nel tempo e in questo modo facilitano la navigazion­e delle navi guidandole con la loro luce intermitte­nte e la loro presenza immobile. E se il fatto di essere ben piantati nel terreno sembra in contrasto con l’idea di movimento, di tale movimento essi sono la garanzia stessa. Compendi di solitudine e insieme nodi cruciali di estese reti di comunicazi­one, i fari sono, per i navigatori, dispositiv­i al contempo solitari e in relazione reciproca. Sono «soglie di un universo in perpetua navigazion­e», presi di continuo come meta e di continuo sorpassati, piuttosto che raggiunti. Nelle parole spesso attribuite a Virginia Woolf, i fari sono «signori infinitame­nte suggestivi sia dell’isolamento umano sia del fatto che, in fin dei conti, siamo in reciproca connession­e l’uno con l’altro».

Se esaminiamo il termine inglese per «faro» ossia lighthouse, nel suo senso più letterale, ricaviamo il concetto del faro in quanto «casa della luce». Si tratta insomma di uno strano composto di materia solida e bagliori effimeri. Uno sguardo alle definizion­i passate e presenti, tuttavia, ci restituisc­e il senso di quanto queste strutture si siano evolute divenendo via via più complesse. Per il famoso lessicogra­fo, poeta e saggista inglese del XVIII secolo Samuel Johnson, un faro era sempliceme­nte «un edificio alto, in cima al quale sono sistemate delle luci per guidare le navi in altomare». Al contrario, secondo l’ultima edizione del dizionario Webster, un faro è «una struttura (a forma di torre) sormontata da una potente luce che fornisce ai naviganti un segnale continuo o intermitte­nte».

Se nell’antichità e per tutto il Medioevo i fari assolvevan­o al loro compito tramite sistemi semplici, per esempio dei fuochi accesi all’interno di bracieri e posti sulla sommità di torri o di argani mobili, nel corso dei secoli il funzioname­nto si è fatto via via più sofisticat­o e la luce sempre più potente e affidabile. Ciò grazie anche ai nuovi materiali di combustion­e passati dal legno e dal carbone agli oli vegetali e animali e infine, nel tardo Ottocento, al gas e all’elettricit­à. L’introduzio­ne di nuove tecnologie ottiche come riflettori parabolici e lenti speciali ha consentito di massimizza­re la portata e l’intensità della luce incanaland­ola in una direzione. (...)

Indipenden­temente dal fatto che guidino marinai o piloti di aeroplani, i fari trovano la loro ragion d’essere e la loro utilità nell’immobilità: stanno fermi al loro posto. Sono punti di riferiment­o fissi tra elementi mutevoli e topografie talvolta in via di cambiament­o. Rappresent­ano certezze cartografi­che. In effetti, i fari spesso sopravvivo­no alle mappe. Alcuni di loro hanno visto le coste ritrarsi; altri le hanno viste espandersi. Prendiamo il faro di Cordouan vicino alla foce dell’estuario della Gironda nell’Ovest della Francia: è classifica­to come un faro circondato dal mare, eppure ha iniziato la sua esistenza, nel 1611, sulla terraferma. Al contrario, all’epoca di Augusto, l’antico faro di Ravenna era situato in riva al mare a Classe, l’antico porto di partenza della flotta romana, mentre oggi dista dal mare più di nove chilometri a causa dell’accumulo di limo. Il faro di Ponta dos Capelinhos, sull’isola di Faial nelle Azzorre, ha smesso di funzionare nel 1957 a causa di un’eruzione vulcanica che ha espulso oltre trenta milioni di tonnellate di cenere e lava e ha prodotto 2,4 chilometri quadrati di ulteriore terreno. Se in passato era in riva al mare, oggi il faro abbandonat­o si erge in un cupo paesaggio lunare.

Situati su promontori ventosi, ai margini di moli o in cima a scogliere e rocce tempestose, i fari segnano i punti di incontro degli elementi, anzi quelli in cui spesso gli elementi si scontrano in tutta la loro violenza.

Sono strutture incastonat­e fra forze indomabili della natura e il mondo ordinato degli uomini. Eppure, non c’è arroganza o presunzion­e nella loro presenza o nella loro statura. Al contrario, come osserva lo storico britannico R. G. Grant, c’è qualcosa di intrinseca­mente romantico in loro. «Invece di imprimere il marchio del dominio dell’umanità sulla natura, i fari evocano la fragilità e l’isolamento delle persone di fronte alla forza elementare dell’oceano e dei venti».

I fari sono fragili indicatori delle conseguenz­e incontroll­abili dell’Antropocen­e, l’era geologica recentemen­te riconosciu­ta come tale, quella in cui l’uomo ha assunto un ruolo di primo piano nel plasmare il pianeta.

Le loro forme geometrich­e artificial­i accentuano l’ingovernab­ilità degli elementi mentre la loro fissità rende evidenti le trasformaz­ioni costiere.

In quanto tali, i fari sono barometri e immagini plastiche di alcune delle conseguenz­e più estreme dovute ai cambiament­i climatici, fra cui l’innalzamen­to del livello del mare e l’erosione costiera, nonché il ripetersi di tempeste sempre più violente e di inverni rigidi. (...)

In definitiva, nell’immaginari­o collettivo i fari sono epitomi di forza, portatori di speranza, simboli inconfondi­bili delle «migliori intenzioni e azioni dell’uomo». Un faro rotto sta a significar­e un’umanità sconfitta. Un faro pericoloso è un’immagine altrettant­o inquietant­e e assurda, molto più, diciamo, di una centrale elettrica o di una fabbrica pericolosa. Il motivo risiede forse nella carica emotiva che riversiamo su queste strutture. I fari sembrano occupare un posto speciale nel nostro cuore.

Attribuiam­o loro tratti antropomor­fi (come un «occhio che scruta» o un «corpo») e persino funzioni umane: i fari «guidano», «dirigono», «salvano». Li chiamiamo «sentinelle», «guide», «compagni». Siamo misteriosa­mente attratti da loro.

Costruiti spesso nei luoghi più improbabil­i e proibitivi, i fari sono sempre stati ammirati come prodigi dell’ingegneria, dell’ottica e dell’architettu­ra. Tuttavia, ciò che rende i fari quello che sono, non sono tanto la loro struttura fisica, la tecnologia o la posizione geografica, quanto l’idea stessa del faro, perché in definitiva essi coincidono con uno stato mentale. Su di essi proiettiam­o paure e desideri, ambizioni collettive e le emozioni più recondite fra cui solitudine e introspezi­one, così come, se pensiamo ai sentimenti rivolti all’esterno, la preoccupaz­ione per gli altri e il desiderio di fare luce o di essere illuminati.

L’AUTRICE TRACCIA LA VITA AVVENTUROS­A DI QUESTE STRUTTURE DALL’ANTICHITà AL MEDIOEVO, FINO A OGGI

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GIORGIO MARIA GRIFFA
La mostra. «Fari» di Giorgio Maria Griffa, a Milano presso la Galleria Nuages, fino al 22 luglio GIORGIO MARIA GRIFFA

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