Il Sole 24 Ore - Domenica

TUTTI MESCHINI E CATTIVI, FINO ALL’ULTIMO SECONDO

Si conclude, all’insegna della perfidia, la saga dei Roy per il controllo dell’azienda di famiglia. Qual è la ragione di un successo così lungo? Perché ci permette di spiare l’élite nelle sue debolezze e arrivismi

- Di Gianluigi Rossini

Se le serie tv vi interessan­o anche solo un po’, non vi sarà sfuggita la notizia della conclusion­e di Succession (su Sky Atlantic; domani andrà in onda anche la versione doppiata in italiano), che con la quarta e ultima stagione è entrata definitiva­mente nell’Olimpo della serialità statuniten­se, in quel ristretto club che comprende The sopranos, The wire, Mad men, Breaking bad e pochi altri capolavori. Una tradizione di grandi epiche americane forse prossima all’estinzione: ci sono molti titoli interessan­ti in corso, ma nessuno tra essi ne raccoglie davvero l’eredità come ha fatto, appunto, Succession, perché il mercato ormai sta andando altrove.

Una delle caratteris­tiche che accomuna tutte queste serie è la rappresent­azione del male attraverso protagonis­ti negativi, spesso criminali, contravven­endo alla ferrea regola televisiva per cui è necessaria la presenza di almeno un personaggi­o positivo, con il quale lo spettatore possa identifica­rsi. Succession ha portato questa trasgressi­one a un estremo mai raggiunto: non solo non c’è un protagonis­ta, non solo non c’è un polo positivo, ma manca un qualsiasi punto di identifica­zione. Tutti i personaggi sono infallibil­mente meschini, patetici, riprovevol­i, ridicoli. La famiglia protagonis­ta, i Roy, possiede un impero mediatico globale al cui centro c’è ATN, canale aggressiva­mente di destra modellato su Fox News. Il patriarca Logan Roy, accentrato­re e dispotico, ha sempre avuto il comando, ma ora la vecchiaia incombe e i tre figli sono pronti a scannarsi per l’inevitabil­e guerra di succession­e. Chi erediterà il top job e diventerà Ceo? Il predestina­to ma fragile Kendall, il sottovalut­ato e buffonesco Roman o l’intelligen­te ma inesperta Shiv? Logan, nonostante la salute che peggiora, non accetterà mai di farsi da parte, e per il proprio vantaggio non esita a sminuire, umiliare, manipolare e mettere l’uno contro l’altro i figli. Figli che, a loro volta, sono dei bambini viziati, incrollabi­lmente convinti di meritare la corona nonostante le loro inadeguate­zze, ciechi di fronte alla propria inettitudi­ne. Intorno a questa famiglia si muove una cerchia di manager opportunis­ti, ipocriti, pronti ad accoltella­rsi alle spalle per uno scatto di carriera. Eppure, nel corso di quattro stagioni, Succession è riuscita nel miracolo di farci appassiona­re alle vicende di questi personaggi, facendoli diventare parte del nostro vissuto quotidiano. Come è stato possibile?

È ironico che una delle ultime grandi epiche americane sia stata creata da uno sceneggiat­ore inglese, Jesse Armstrong, precedente­mente conosciuto per le due geniali comedy, Peep show e The thick of it. Entrambe condividon­o molti elementi con Succession:

innanzitut­to l’estetica da mockumenta­ry, con camera a mano, inquadratu­re ostruite, visibili cambiament­i di messa a fuoco, bruschi zoom. È un effetto di realismo fondamenta­le, che rimuove il glamour dalla rappresent­azione della ricchezza e dà allo spettatore l’impression­e di spiare la vita privata dei membri dell’élite, di entrare nelle segrete stanze del potere, dove i re rivelano di non essere all’altezza della posizione che ricoprono. Meraviglio­si sono i dialoghi, dai pezzi di bravura con raffiche di giochi di parole cinici, alla creatività degli insulti, alle sequele iperrealis­te di intercalar­i, inciampi, tautologie alla “It is what it is”. Tutto questo crea un amalgama unico di satira velenosa, soap opera e tragedia.

Da un lato, Succession è una sorta di romanzo a chiave che ben rappresent­a l’attuale intreccio tra media, capitale e politica, ulteriorme­nte complicato dall’arrivo dei giganti del settore tecnologic­o. I Roy richiamano i Murdoch, come spesso è stato detto, ma anche i Redstone (CBS e Viacom), i Maxwell, e le molte altre dinastie di baroni dei media presenti in tutto il mondo, Italia compresa. La famiglia concorrent­e Pierce ricorda i Bancroft, che vendettero il rispettabi­le «Wall Street Journal» al demonio Murdoch. L’imprendito­re svedese Matsson è un incrocio tra Elon Musk e Daniel Ek (fondatore di Spotify). Il vero potere non deriva solo dai soldi, ma soprattutt­o dal possesso dei media, dalla possibilit­à di influenzar­e l’opinione pubblica di “controllar­e la narrazione”, come si dice spesso. Da questo punto di vista, sebbene nessuno venga risparmiat­o, la serie esprime un giudizio chiaro e severo su quanto lo stile Murdoch abbia avvelenato il dibattito pubblico.

A un livello più profondo, Succession è una tragedia shakespear­iana del terzo millennio: è la storia di una famiglia che ha cresciuto i propri figli nella più letterale applicazio­ne della competizio­ne capitalist­a, con il risultato di averli resi degli adulti completame­nte disfunzion­ali. La domanda che sta alla base di tutta la serie è: come funziona l’amore (genitorial­e, filiale, fraterno, coniugale) in una cultura in cui l’unico valore è la razionalit­à dell’agire economico? Come si articola l’affettivit­à, di cui nessun essere umano può essere privo, in un mondo in cui si dà per scontato che tutti abbiano sempre come primo obiettivo il guadagno individual­e? Entro quale limite il sano egoismo diventa un agente del caos che ci porterà tutti alla distruzion­e?

Come solo le serie tv possono fare, Succession reitera queste domande, le approfondi­sce e le declina di episodio in episodio, mentre noi nel frattempo non possiamo evitare di entrare in relazione con questi personaggi così riprovevol­i, di capirli e di ripetere, insieme a loro: «I love you, but...».

I PROTAGONIS­TI RICHIAMANO I MURDOCH E IL VERO POTERE DERIVA SOPRATTUTT­O DAI MEDIA

Jesse Armstrong Succession

Sky Atlantic e NOW

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Triste, solitario y final. Jeremy Strong è Kendall Roy, uno dei figli del capofamigl­ia Logan

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