DA UN PAESINO ALL’EUROPA, LE PREDICHE UTILI DI EINAUDI
A 150 anni dalla nascita, la dimensione europea e la vocazione federalista del pensiero einaudiano sono di impressionante preveggenza. Invitava al liberalismo, che però «non vuol dire assenza di vincoli statali»
Attualizzare un personaggio per banalizzarlo o stiracchiarlo a una lettura di parte è il destino di molti anniversari. Ma con Luigi Einaudi, di cui oggi ricorre il 150° anniversario della nascita, il tentativo è destinato a fallire. Perché la limpidezza di ciò che ha scritto e l’importanza di ciò che ha realizzato non consentono equivoci.
E dunque davvero possiamo sostenere che l’insegnamento di Luigi Einaudi risulta ancora attuale, prezioso e fruttuoso. Domani, sarà riproposto a Roma, in un convegno scientifico organizzato in Campidoglio dal Comitato nazionale per i 150 anni di Luigi Einaudi, alla presenza del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.
Cominciamo dall’inizio: Carrù, dove Einaudi nasce e Dogliani, il borgo materno che lo adotta; il Piemonte monarchico; la borghesia laboriosa espressione di valori condivisi con le classi sociali più umili. «Einaudi sognava tutta l’Italia come Dogliani», avrebbe scritto uno dei maestri del giornalismo italiano, Luigi Barzini jr.
Nelle colline delle Langhe, infatti, Einaudi vede maturare una coscienza borghese ancorata non all’attaccamento atterrito al passato, ma alla prudente e coraggiosa e costante ambizione di migliorare, cambiare, investire, intraprendere, innovare, «innalzarsi col lavoro fecondo ed onesto», come avrebbe scritto giovanissimo in una monografia su Dogliani del 1894. Cinquant’anni dopo, Einaudi, allora nell’esilio svizzero, ritornerà idealmente nel «borgo di campagna in un giorno di fiera» per spiegare cosa sia il mercato ai giovani destinati a formare la classe dirigente della futura Italia democratica: la fiera paesana riassume i tratti del mercato autentico, che non è tale se non ci sono le regole, le istituzioni e l’etica, rappresentate dal «cappello a due punte della coppia dei carabinieri», dal diritto e dal parroco. Con buona pace di chi ancora identifica il mercato col “liberismo selvaggio”.
Ancora più urticante si fa l’eredità di Einaudi se lo leggiamo alla luce dei crescenti segni di sfiducia in quel modello di democrazia liberale che egli ha contribuito a realizzare, assicurando decenni di libertà, benessere e progresso sociale a una consistente parte del pianeta. Qui, gli spunti sarebbero tanti, come dimostra efficacemente l’economista Angelo Santagostino nel recentissimo libro Luigi Einaudi. Lo scultore dell’Europa (Marco Serra Tarantola, pagg. 244 illustrate, €20), anticipato in una versione abbreviata in lingua inglese pubblicata pochi mesi fa per restituire a Einaudi la sua statura europeista (Luigi Einaudi. The President Who Made Europe Move,
Cambridge Scholars Publishing, pagg. 152, £62,99).
La dimensione europea e la vocazione federalista del pensiero einaudiano risultano oggi di impressionante preveggenza. Già all’indomani della Prima guerra mondiale Einaudi, intuendo il fallimento della Società delle Nazioni, basata sull’illusione di un modello confederale tra Stati sovrani, aveva denunciato i rischi del «dogma della sovranità» che poi, alla Costituente, avrebbe bollato come «il nemico numero uno della civiltà, della prosperità, della vita medesima dei popoli». Di nuovo nel 1944, in uno scritto per il Movimento Federalista Europeo, Einaudi difende il federalismo dalle accuse, oggi di nuovo popolari, di voler distruggere le identità e dunque il pluralismo delle culture nazionali. Attribuiamo a un unico centro decisionale le funzioni «accentratrici» (difesa nazionale, moneta e comunicazioni), propone Einaudi, «e noi avremo non scemata ma accresciuta l’importanza morale e spirituale dei singoli Stati, ai quali continuerà a spettare il governo delle cose che sono veramente importanti per gli uomini». Non meno esplicito fu perciò Einaudi nei confronti del protezionismo; nel 1914 denuncia la retorica di chi proclama di voler tutelare «l’industria “nazionale”, l’energia “nazionale”, il risparmio “nazionale”», quando priorità dovrebbe essere quella cara agli economisti liberisti, ossia «aprire le porte d’Italia alle merci straniere, ai capitali stranieri, a dare parità di trattamento ai nazionali ed ai forestieri». E lancia un appello agli economisti perché non cedano al conformismo e alla demagogia; un tema sul quale tornerà, non a caso, poche settimane prima della scomparsa, nel settembre 1961, con lo scritto Politici ed economisti, per la Mont Pélerin Society: «Un discorso spietato per gli ipocriti e i conformisti … nel quale con pochi tratti fustigò gli economisti che per sfuggire alle loro responsabilità si coprono di una falsa veste di tecnici imparziali», come avrebbe ricordato un testimone d’eccezione, Giovanni Malagodi.
Quando l’integrazione europea comincia a muovere i primi passi, Einaudi ne seguirà attentamente l’evoluzione dal Quirinale, di nuovo mettendo in guardia da sfide e rischi e ormai tutt’altro che teorici. Basti pensare all’ammonimento, nel 1950, quando si avvia il piano Schuman, sui rischi dell’unanimità, denunciandone la fallacia congenita. Insiste sul modello federale e sulla priorità da attribuire alla realizzazione di una federazione economica; attribuisce un ruolo essenziale, per questo alla costruzione di una difesa europea, evocando (nel 1952!) «l’angoscia (di) Machiavelli per l’impotenza dei minimi Stati italiani di fronte a Spagna e Francia (che) è l’angoscia odierna degli italiani, dei francesi dei tedeschi per la impotenza nostra in confronto ai colossi che ci attorniano».
Oggi Einaudi si sorprenderebbe di quanto il tema resti distante dalle sensibilità diffuse; e la sua prosa tagliente non mancherebbe di esercitarsi, per convincere e costruire un’opinione pubblica informata e responsabile, come fece per tutta la vita.
Einaudi, infatti, fu anche grande editorialista e talora anche cronista: i suoi maggiori avversari erano «i fantocci polemici», la retorica, l’incompetenza. Scorrendo i tanti tratti del suo pensiero, i temi del suo liberalismo (tra i quali il valore morale della concorrenza, la guerra alle corporazioni – compresa quella dei giornalisti – la libertà della scuola) troveremmo la conferma che questo «non vuol dire assenza di vincoli statali, di norme coattive», come scrisse a conclusione delle sue Prediche inutili. «Il liberismo economico – aggiungeva – è una invenzione sfacciata dei socialisti, dei dirigisti, degli interventisti». Tenerne conto, consentirebbe oggi di ripulire il vocabolario politico, e di ridefinire l’agenda per il futuro delle democrazie liberali e del capitalismo democratico.