BELLA FACCIA DI CACTUS NARRACI LA TUA POESIA
La pittura coglie l’anima di questa pianta come dimostrano le opere dell’artista sudcoreano Lee Kwang-Ho: alti fin quasi tre metri, i suoi dipinti iperrealisti sono veri ritratti della gloria succulenta
Fra tutte le piante, i cactus sono forse le più stoiche. La loro resistenza è innegabile e raramente eguagliata. Molte specie di cactus sono in grado di resistere alle condizioni più difficili, dal caldo torrido dei deserti americani al gelo e al vento delle Grandi Pianure.
Impenetrabili nel silenzio, impareggiabili nella resistenza. Gli aculei dicono chiaramente una cosa: stare alla larga. I cactus si difendono. Come fortezze viventi, respingono gli assalti. Come monumenti, si ergono imperturbabili e solenni. Apparentemente assenti, distaccati, eppure presentissimi a loro stessi.
L’enigmatica presenza dei cactus è in qualche modo sfuggita all’approfondito esame che filosofi delle piante come Michael Marder ed Emanuele Coccia hanno riservato ad altre specie. I cactus potrebbero infatti risultare troppo criptici, forse troppo simili a oggetti per una filosofia dell’essere vegetale che mira soprattutto a mettere in evidenza la capacità di sentire e comprendere ed agire delle piante. I cactus resistono anche a questo tipo di indagine, ponendo forse una sfida ancora più affascinante, invitandoci ad ampliare il modo in cui pensiamo alle piante e al nostro rapporto con esse.
L’arte riesce sovente dove la filosofia fallisce, o perlomeno raggiunge territori che la filosofia non ha ancora esplorato. Dopotutto, se affrontata in un certo modo, la pittura può essere un formidabile strumento filosofico, come è stato dimostrato più volte da artisti audaci come René Magritte, Frida Kahlo, Kerry James Marshal, Lucian Freud. La grande pittura non riproduce mai semplicemente la realtà così come la vediamo, né la crea ex novo: la riconfigura, a volte in modo sottile, e si spinge al di sotto delle apparenze per mostrarci la realtà in modi che non abbiamo mai preso prima in considerazione. La pittura può essere un incontro capace di giungere lontano e in profondità, al di là delle superfici e della banalità del quotidiano. Getta luce dove il linguaggio non riesce a vedere.
Sono riconducibili a questo filone i grandi dipinti di cactus dell’artista sudcoreano Lee Kwang-Ho. Alti fin quasi tre metri, più grandi del vero, i dipinti iperrealisti di Lee sono veri e propri ritratti della gloria succulenta.
Attraverso l’ingrandimento e la dedizione ai dettagli, il pittore catturale minuzie che rendono ogni cactus un individuo a sé stante. La decisione di Lee di ritagliare l’immagine in modo che sia visibile solo la parte superiore del corpo delle piante e di incorniciarle, come si farebbe con un busto umano, accentua una sottile tensione antropomorfa che non si allontana mai troppo dal vero carattere della pianta. (...)
Il carattere individuale di una pianta è forse legato indissolubilmente al tempo che dedichiamo a guardarla? E non dovremmo allora guardarla più intensamente? Se guardassimo un cactus abbastanza a fondo, non per trovare la bellezza nel senso classico del giardinaggio ma per discernere i tratti che rendono la pianta unica, cosa potremmo imparare?
I dipinti di Lee ci invitano a scoprire l’identità e il carattere dei cactus: l’elevata concentrazione, l’inesausta attenzione per il dettaglio, l’enfasi sulle sfumature e le idiosincrasie ci ricordano che la maggior parte dell’identità di una pianta è superficiale. Non perché sia banale, ma perché materialmente risiede sulla superficie di foglie, petali e rami.
Per percepirla dobbiamo riorientare il nostro sguardo e la nostra attenzione. Sebbene tutte le piante siano soggette a danni, non tutte portano le cicatrici dei traumi con la stessa fierezza dei cactus.
La loro determinazione a evitare il contatto con l’uomo e gli altri animali è ben fondata: la costituzione carnosa dei cactus è tenera. Solo i saguari, le opuntie e le euforbie più grandi si rivestono di corteccia, e solo quando raggiungono la maturità, sovente dopo un centinaio di anni. I cactus cicatrizzano facilmente.
Il loro tessuto molle si indurisce dove la ferita si rimargina. Si asciuga, spesso formando una crosta dorata o grigia che nella maggior parte dei casi non cade mai. Memoria perenne dei loro incontri col mondo, queste cicatrici sono marchi essenziali della loro identità. Lee registra fedelmente queste tracce di individualità nei suoi dipinti per sottolineare la singolarità di ogni cactus. Le cicatrici: prove di una vita vissuta che il capitalismo ci ha insegnato a rifiutare e celare.
In contrasto con la tradizione occidentale della natura morta, in cui le piante sono spesso rappresentate all’apice della loro bellezza, Lee si sofferma sull’importanza delle fioriture esaurite, che, come graffi e cicatrici, evocano l’idea di una vitalità che conta al di là del nostro apprezzamento estetico. Questi cactus sono belli non perché sono perfetti o perché sono stati immortalati nel fiore degli anni, ma perché sono naturalmente imperfetti; perché i loro corpi sono stati riformulati dal tempo in una sorta di irripetibile poesia vivente.
QUESTI CACTUS SONO BELLI PERCHé SONO IMPERFETTI: I LORO CORPI SONO STATI RIFORMULATI DAL TEMPO IN IRRIPETIBILE POESIA