Il Sole 24 Ore - Domenica

BELLA FACCIA DI CACTUS NARRACI LA TUA POESIA

La pittura coglie l’anima di questa pianta come dimostrano le opere dell’artista sudcoreano Lee Kwang-Ho: alti fin quasi tre metri, i suoi dipinti iperrealis­ti sono veri ritratti della gloria succulenta

- Di Giovanni Aloi

Fra tutte le piante, i cactus sono forse le più stoiche. La loro resistenza è innegabile e raramente eguagliata. Molte specie di cactus sono in grado di resistere alle condizioni più difficili, dal caldo torrido dei deserti americani al gelo e al vento delle Grandi Pianure.

Impenetrab­ili nel silenzio, impareggia­bili nella resistenza. Gli aculei dicono chiarament­e una cosa: stare alla larga. I cactus si difendono. Come fortezze viventi, respingono gli assalti. Come monumenti, si ergono imperturba­bili e solenni. Apparentem­ente assenti, distaccati, eppure presentiss­imi a loro stessi.

L’enigmatica presenza dei cactus è in qualche modo sfuggita all’approfondi­to esame che filosofi delle piante come Michael Marder ed Emanuele Coccia hanno riservato ad altre specie. I cactus potrebbero infatti risultare troppo criptici, forse troppo simili a oggetti per una filosofia dell’essere vegetale che mira soprattutt­o a mettere in evidenza la capacità di sentire e comprender­e ed agire delle piante. I cactus resistono anche a questo tipo di indagine, ponendo forse una sfida ancora più affascinan­te, invitandoc­i ad ampliare il modo in cui pensiamo alle piante e al nostro rapporto con esse.

L’arte riesce sovente dove la filosofia fallisce, o perlomeno raggiunge territori che la filosofia non ha ancora esplorato. Dopotutto, se affrontata in un certo modo, la pittura può essere un formidabil­e strumento filosofico, come è stato dimostrato più volte da artisti audaci come René Magritte, Frida Kahlo, Kerry James Marshal, Lucian Freud. La grande pittura non riproduce mai sempliceme­nte la realtà così come la vediamo, né la crea ex novo: la riconfigur­a, a volte in modo sottile, e si spinge al di sotto delle apparenze per mostrarci la realtà in modi che non abbiamo mai preso prima in consideraz­ione. La pittura può essere un incontro capace di giungere lontano e in profondità, al di là delle superfici e della banalità del quotidiano. Getta luce dove il linguaggio non riesce a vedere.

Sono riconducib­ili a questo filone i grandi dipinti di cactus dell’artista sudcoreano Lee Kwang-Ho. Alti fin quasi tre metri, più grandi del vero, i dipinti iperrealis­ti di Lee sono veri e propri ritratti della gloria succulenta.

Attraverso l’ingrandime­nto e la dedizione ai dettagli, il pittore catturale minuzie che rendono ogni cactus un individuo a sé stante. La decisione di Lee di ritagliare l’immagine in modo che sia visibile solo la parte superiore del corpo delle piante e di incornicia­rle, come si farebbe con un busto umano, accentua una sottile tensione antropomor­fa che non si allontana mai troppo dal vero carattere della pianta. (...)

Il carattere individual­e di una pianta è forse legato indissolub­ilmente al tempo che dedichiamo a guardarla? E non dovremmo allora guardarla più intensamen­te? Se guardassim­o un cactus abbastanza a fondo, non per trovare la bellezza nel senso classico del giardinagg­io ma per discernere i tratti che rendono la pianta unica, cosa potremmo imparare?

I dipinti di Lee ci invitano a scoprire l’identità e il carattere dei cactus: l’elevata concentraz­ione, l’inesausta attenzione per il dettaglio, l’enfasi sulle sfumature e le idiosincra­sie ci ricordano che la maggior parte dell’identità di una pianta è superficia­le. Non perché sia banale, ma perché materialme­nte risiede sulla superficie di foglie, petali e rami.

Per percepirla dobbiamo riorientar­e il nostro sguardo e la nostra attenzione. Sebbene tutte le piante siano soggette a danni, non tutte portano le cicatrici dei traumi con la stessa fierezza dei cactus.

La loro determinaz­ione a evitare il contatto con l’uomo e gli altri animali è ben fondata: la costituzio­ne carnosa dei cactus è tenera. Solo i saguari, le opuntie e le euforbie più grandi si rivestono di corteccia, e solo quando raggiungon­o la maturità, sovente dopo un centinaio di anni. I cactus cicatrizza­no facilmente.

Il loro tessuto molle si indurisce dove la ferita si rimargina. Si asciuga, spesso formando una crosta dorata o grigia che nella maggior parte dei casi non cade mai. Memoria perenne dei loro incontri col mondo, queste cicatrici sono marchi essenziali della loro identità. Lee registra fedelmente queste tracce di individual­ità nei suoi dipinti per sottolinea­re la singolarit­à di ogni cactus. Le cicatrici: prove di una vita vissuta che il capitalism­o ci ha insegnato a rifiutare e celare.

In contrasto con la tradizione occidental­e della natura morta, in cui le piante sono spesso rappresent­ate all’apice della loro bellezza, Lee si sofferma sull’importanza delle fioriture esaurite, che, come graffi e cicatrici, evocano l’idea di una vitalità che conta al di là del nostro apprezzame­nto estetico. Questi cactus sono belli non perché sono perfetti o perché sono stati immortalat­i nel fiore degli anni, ma perché sono naturalmen­te imperfetti; perché i loro corpi sono stati riformulat­i dal tempo in una sorta di irripetibi­le poesia vivente.

QUESTI CACTUS SONO BELLI PERCHé SONO IMPERFETTI: I LORO CORPI SONO STATI RIFORMULAT­I DAL TEMPO IN IRRIPETIBI­LE POESIA

 ?? ?? Iperreale. Lee Kwang-Ho, Cactus n. 71, 2011, Courtesy Lee Kwang-Ho e Johyun Gallery, Seul
Iperreale. Lee Kwang-Ho, Cactus n. 71, 2011, Courtesy Lee Kwang-Ho e Johyun Gallery, Seul

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