IL SELVATICO SI è PRESO LA RIVINCITA
Dopo che l’autrice, a causa della pandemia, si trova sola nel palazzo dove lavora, altre presenze si manifestano, insetti, piante: ci accompagnano da sempre, ma all’improvviso «le percepiamo»
Privo come sono d’immaginazione, faccio fatica a capire quanto possa turbare, chi sogna, l’inopinato realizzarsi del suo sogno. Ma appunto questo è successo, quattro anni fa, a Laura Pugno. Sin da Sleepwalking (2002) ogni sua narrazione si presenta “ulteriore”: successiva a un trauma, per lo più non ben determinato, che relega il nostro mondo in una dimensione arcaica e leggendaria. Non si può dire un’apocalisse perché gli esseri umani, dopo, continuano a vivere: ma in condizioni radicalmente mutate. Il sole nero di Sirene (2007) costringe a rifugiarsi sotto l’oceano; una pioggia di polvere risveglia mostri nella Caccia (2012); un incidente nucleare lascia orfana La ragazza selvaggia (2016); la sciagura economica ci riporta al tempo dei lupi nella Metà di bosco (2018). È almeno da Quando verrai (2009) che l’immaginario di Pugno esplora la dimensione «selvatica» o «selvaggia» (quello che oggi chiamano rewilding).
In territorio selvaggio, proprio, s’intitolava il «quaderno d’appunti» diretto progenitore, nel 2018, di Noi senza mondo: libri che non prevedono risposte ma brulicano di domande, e non si possono infatti definire «saggi» (men che meno «romanzi», come ha l’improntitudine di fare il suo editore) bensì contenitori di citazioni, ragionamenti e illuminazioni nei quali Pugno intreccia la propria esperienza di scrittrice a quelle di altri poeti, narratori e saggisti: radici di alberi diversi che crescono sino a fondersi tra loro, perché «tutto nella foresta è la foresta» (Richard Powers). Da lei citate, la caposcuola del trans-umanesimo cyber Donna Haraway e la nostra Antonella Anedda sono maestre della «diffrazione» in cui «scrivere e leggere sono la stessa cosa». Riscrivere un classico può far scoprire la sua «ombra», la sua «scatola nera» (metafora già cara a Giorgio Caproni): la memoria di un disastro che resta dopo il suo consumarsi.
Se In territorio selvaggio ruotava attorno ai Quattro quartetti di Eliot, Noi senza mondo rivisita L’ultimo dei Mohicani: il tempo in cui è ambientato il romanzo di Fenimore Cooper (il 1757 della guerra francoindiana nello stato di New York) è vicinissimo al 1769 della macchina a vapore di James Watt, data d’inizio convenzionale dell’Antropocene (Pugno ci fa la grazia di menzionare questo prezzemolo concettuale solo quando è proprio indispensabile). È il momento della «fine di un mondo»: quello «in cui esiste un tessuto dei viventi, in cui siamo animali che con altri animali attraversano il mondo». Ma proprio la riapparizione di animali da tempo scomparsi – cigni a Venezia, pavoni a Barcellona – è il marchio visivo del sogno (o incubo) che si materializza: quieto e tremendo come ogni destino che si compia. Le strade vuote, gli umani rintanati, il «selvatico» che si prende la rivincita: dall’oggi al domani Laura si trova sola nel palazzo, immenso e all’improvviso spettrale, dell’Istituto italiano di cultura di Madrid (miracolosa la censura dell’ancor più impronunciabile «Covid»). Passano le settimane, i mesi; alla paura e alla desolazione subentra una strana lucidità contemplativa: come quella che ci visita, a volte, al colmo della febbre. Altre presenze si manifestano, un insetto si muove piano, una pianta boccheggia dal caldo: ci accompagnano da sempre, ma all’improvviso le percepiamo.
È segno d’una costanza antropologica della nostra specie (d’un terzo tormentone, «resilienza», ladiomercè non v’è traccia nel testo) che ogni volta ci accorgiamo come non sia stata la fine del mondo, quella che ci ha investito, bensì la fine di un mondo: perché questo mondo ne contiene infiniti altri. Il Nuovo mondo (più che ai film tratti da Cooper si pensa a quello così intitolato di Terrence Malick su Pocahontas – a non voler pensare al «brave new world» sul quale si conclude il formidabile Poor Things di Lanthimos…) è piuttosto, allora, «un nuovo popolo; il popolo che manca»: quello che deve trovare nuove forme di coesistenza col mondo dove gli tocca sopravvivere. Ma se quella appena riassunta è molto semplicemente l’agenda politica del nostro tempo, la specificità del «quaderno» di Laura Pugno è il compito – non altrimenti definibile che politico, appunto – da lei attribuito alla letteratura. La sua missione è quella di «spingersi più in alto e più avanti, dove non siamo stati». L’impensato della poesia, allora, assomiglia davvero al sogno: se vi si producono «incontri che poi diventano reali, della realtà del mondo». Sapevamo da sempre che è la materia di cui sono fatti i sogni; ma fa venire i brividi scoprire che è la stessa materia di cui è fatta la nostra vita di tutti i giorni.
Laura Pugno
Noi senza mondo Marsilio, pagg. 128, € 16