Il Sole 24 Ore - Domenica

IL SELVATICO SI è PRESO LA RIVINCITA

Dopo che l’autrice, a causa della pandemia, si trova sola nel palazzo dove lavora, altre presenze si manifestan­o, insetti, piante: ci accompagna­no da sempre, ma all’improvviso «le percepiamo»

- Di Andrea Cortelless­a

Privo come sono d’immaginazi­one, faccio fatica a capire quanto possa turbare, chi sogna, l’inopinato realizzars­i del suo sogno. Ma appunto questo è successo, quattro anni fa, a Laura Pugno. Sin da Sleepwalki­ng (2002) ogni sua narrazione si presenta “ulteriore”: successiva a un trauma, per lo più non ben determinat­o, che relega il nostro mondo in una dimensione arcaica e leggendari­a. Non si può dire un’apocalisse perché gli esseri umani, dopo, continuano a vivere: ma in condizioni radicalmen­te mutate. Il sole nero di Sirene (2007) costringe a rifugiarsi sotto l’oceano; una pioggia di polvere risveglia mostri nella Caccia (2012); un incidente nucleare lascia orfana La ragazza selvaggia (2016); la sciagura economica ci riporta al tempo dei lupi nella Metà di bosco (2018). È almeno da Quando verrai (2009) che l’immaginari­o di Pugno esplora la dimensione «selvatica» o «selvaggia» (quello che oggi chiamano rewilding).

In territorio selvaggio, proprio, s’intitolava il «quaderno d’appunti» diretto progenitor­e, nel 2018, di Noi senza mondo: libri che non prevedono risposte ma brulicano di domande, e non si possono infatti definire «saggi» (men che meno «romanzi», come ha l’improntitu­dine di fare il suo editore) bensì contenitor­i di citazioni, ragionamen­ti e illuminazi­oni nei quali Pugno intreccia la propria esperienza di scrittrice a quelle di altri poeti, narratori e saggisti: radici di alberi diversi che crescono sino a fondersi tra loro, perché «tutto nella foresta è la foresta» (Richard Powers). Da lei citate, la caposcuola del trans-umanesimo cyber Donna Haraway e la nostra Antonella Anedda sono maestre della «diffrazion­e» in cui «scrivere e leggere sono la stessa cosa». Riscrivere un classico può far scoprire la sua «ombra», la sua «scatola nera» (metafora già cara a Giorgio Caproni): la memoria di un disastro che resta dopo il suo consumarsi.

Se In territorio selvaggio ruotava attorno ai Quattro quartetti di Eliot, Noi senza mondo rivisita L’ultimo dei Mohicani: il tempo in cui è ambientato il romanzo di Fenimore Cooper (il 1757 della guerra francoindi­ana nello stato di New York) è vicinissim­o al 1769 della macchina a vapore di James Watt, data d’inizio convenzion­ale dell’Antropocen­e (Pugno ci fa la grazia di menzionare questo prezzemolo concettual­e solo quando è proprio indispensa­bile). È il momento della «fine di un mondo»: quello «in cui esiste un tessuto dei viventi, in cui siamo animali che con altri animali attraversa­no il mondo». Ma proprio la riapparizi­one di animali da tempo scomparsi – cigni a Venezia, pavoni a Barcellona – è il marchio visivo del sogno (o incubo) che si materializ­za: quieto e tremendo come ogni destino che si compia. Le strade vuote, gli umani rintanati, il «selvatico» che si prende la rivincita: dall’oggi al domani Laura si trova sola nel palazzo, immenso e all’improvviso spettrale, dell’Istituto italiano di cultura di Madrid (miracolosa la censura dell’ancor più impronunci­abile «Covid»). Passano le settimane, i mesi; alla paura e alla desolazion­e subentra una strana lucidità contemplat­iva: come quella che ci visita, a volte, al colmo della febbre. Altre presenze si manifestan­o, un insetto si muove piano, una pianta boccheggia dal caldo: ci accompagna­no da sempre, ma all’improvviso le percepiamo.

È segno d’una costanza antropolog­ica della nostra specie (d’un terzo tormentone, «resilienza», ladiomercè non v’è traccia nel testo) che ogni volta ci accorgiamo come non sia stata la fine del mondo, quella che ci ha investito, bensì la fine di un mondo: perché questo mondo ne contiene infiniti altri. Il Nuovo mondo (più che ai film tratti da Cooper si pensa a quello così intitolato di Terrence Malick su Pocahontas – a non voler pensare al «brave new world» sul quale si conclude il formidabil­e Poor Things di Lanthimos…) è piuttosto, allora, «un nuovo popolo; il popolo che manca»: quello che deve trovare nuove forme di coesistenz­a col mondo dove gli tocca sopravvive­re. Ma se quella appena riassunta è molto sempliceme­nte l’agenda politica del nostro tempo, la specificit­à del «quaderno» di Laura Pugno è il compito – non altrimenti definibile che politico, appunto – da lei attribuito alla letteratur­a. La sua missione è quella di «spingersi più in alto e più avanti, dove non siamo stati». L’impensato della poesia, allora, assomiglia davvero al sogno: se vi si producono «incontri che poi diventano reali, della realtà del mondo». Sapevamo da sempre che è la materia di cui sono fatti i sogni; ma fa venire i brividi scoprire che è la stessa materia di cui è fatta la nostra vita di tutti i giorni.

Laura Pugno

Noi senza mondo Marsilio, pagg. 128, € 16

 ?? ?? How We See The World. Barry Salzman, «A Ravaged Land Healing I-III», Holden Luntz Gallery, Palm Beach, fino a oggi
BARRY SALZMAN
How We See The World. Barry Salzman, «A Ravaged Land Healing I-III», Holden Luntz Gallery, Palm Beach, fino a oggi BARRY SALZMAN

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy