AL QUIRINALE DEFINì LA GRAMMATICA DELLA DEMOCRAZIA
«Esercita, senza teorizzarla, una morale di austerità antica di elementare semplicità». La definizione scolpita da Piero Gobetti è per il suo maestro e nume, Luigi Einaudi. L’economista liberale, campione di una oculata sobrietà privata e pubblica, sarà chiamato a diventare il presidente della Repubblica a cui toccherà, con Alcide De Gasperi – come ha detto il presidente Sergio Mattarella nel ricordarlo a Dogliani – «il compito di definire la grammatica della democrazia italiana appena nata». Del resto, anche formalmente, era il primo presidente eletto dalle nuove Camere riunite in seduta comune.
Innanzitutto la moral suasion. Diventerà proverbiale: bigliettini, lettere, incontri riservati, esortazioni, avvisi. Molti, ogni giorno. Un’attività di dialogo e indirizzo tanto serrata quanto discreta, verso i rappresentanti politici di governo e opposizione. Soprattutto di maggioranza. Un’azione di sprone e sostanzialmente pedagogica, come era nella natura del suo essere profondamente professore. Sempre Mattarella ricorderà che per alcuni quell’azione risulterà addirittura «pedante». Non molto distante dall’idea delle «Prediche inutili» di copyright einaudiano. Quelle, tra l’altro, del celebre «Prima conoscere, poi discutere, poi deliberare».
Quell’azione di moral suasion era un primo modo concreto per dare attuazione all’articolo 87 della Costituzione, tutto ancora da inverare in una dialettica istituzionale mai sperimentata prima.
Si svegliava alle 6.30, alle 8 il primo caffè nello studio personale, poi un’ora dopo nello studio alla Vetrata un’occhiata al rapporto quotidiano del Tesoro sull’andamento dei conti pubblici. Seguiva la lettura dei rapporti quotidiani soprattutto dei Carabinieri, compreso un primo embrione di indice di gradimento dei politici stilato sulla base dei cinquemila centri di raccolta dati dell’Arma. Einaudi amava consultare i rappresentanti delle Forze armate e dei servizi segreti nonché gli ambasciatori. Considerava un dovere conoscere con anticipo e discrezione le dinamiche politiche per avere le idee chiare (e approfondite) sui comportamenti da tenere, via via, nell’esercizio del ruolo costituzionale nascente.
Emergerà con chiarezza alla lettura del suo diario. Un testo compilato quotidianamente al tramonto, scrittura minuta e regolare su carta intestata dell’Accademia dei Lincei. Diventerà un saggio per la «Nuova Antologia» nel ’56. Il titolo non è – per così dire – a effetto: «Usanze non scritte in alcuna norma costituzionale o legislativa e che possono essere considerate il legato che le istituzioni antiche trasmisero a quelle attuali». Tradotto liberalmente: eredità per il buon governo.
Un “legato” che forse Einaudi non immaginava potesse diventare uno dei principali precedenti dell’azione del Quirinale fu il primo Governo tecnico o del presidente.
Anche in questo caso Einaudi intese realizzare un passo importante della nuova grammatica istituzionale e democratica: nominò in pieno Ferragosto 1953 il suo allievo e amico economista Giuseppe Pella, Dc non organico a De Gasperi, presidente del Consiglio incaricato di un monocolore democristiano che passerà grazie al voto dei monarchici. Nessuna consultazione politica preventiva, una convocazione immediata a Caprarola, nella residenza estiva (la «Casina del Piacere» di Villa Farnese) con due giornalisti e un fotografo a fare da testimoni.
La chiosa personale su quella scelta diventa dottrina costituzionale: «La Costituzione non parla di consultazioni, si affida al criterio del Capo dello Stato. E il mio criterio mi dice che in questo momento quello che è necessario è un Governo». È appena stato bocciato l’ennesimo Esecutivo De Gasperi, inutile il tentativo di aprire ai socialisti di Pietro Nenni. Nel suo diario Giulio Andreotti annota: «Quella notte a Caprarola il presidente Einaudi e la moglie avevano le lacrime agli occhi».
PROVERBIALE LA SUA «MORAL SUASION»: IL DIALOGO SERRATO E DISCRETO CON GOVERNO E OPPOSIZIONE
L’urgenza del governo tecnico (allora autodefinito Governo della nazione ma chiamato anche Governo d’affari o Governo amministrativo) è approvare il bilancio e quella doveva essere la missione per Pella, ma non andrà così.
In quell’occasione Einaudi renderà esplicito anche il potere del Quirinale nella scelta dei ministri indicando direttamente i titolari del Commercio estero e delle Poste nei nomi di Costantino Bresciani Turroni e Modesto Panetti.
Invocherà i poteri dell’articolo 92 della Costituzione sulla «nomina del presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questi, i ministri» quando cercherà di evitare la sfiducia a Pella bocciato dal fuoco amico del direttivo Dc. Atto che per Einaudi è inammissibile e lo dirà con un certo vigore a un giovane Aldo Moro e a Stanislao Ceschi, capigruppo Dc alle Camere. Non basterà.
A Einaudi toccherà anche la facoltà di rinviare alle Camere i provvedimenti del Governo. Lo farà per quattro volte, due per violazione dell’articolo 81 della Costituzione, quello che prevede la copertura finanziaria per gli atti legislativi, che lui stesso, da padre Costituente, aveva contribuito a scrivere. Altre due per motivi etici. Celebre la furia verbale affidata a 50 cartelle per bocciare i «diritti casuali» per il personale del Tesoro, Finanze e Corte dei conti che considerava una sorta di tangente di Stato. Del resto etica e sobrietà erano pratica quotidiana. Anche nell’avviare la stagione dei discorsi di fine anno: il primo è di 158 parole tra cui «rettitudine», «bene comune», «libertà», «civile progresso». In una cartella, una vita.