Il Sole 24 Ore - Domenica

AL QUIRINALE DEFINì LA GRAMMATICA DELLA DEMOCRAZIA

- Di Alberto Orioli

«Esercita, senza teorizzarl­a, una morale di austerità antica di elementare semplicità». La definizion­e scolpita da Piero Gobetti è per il suo maestro e nume, Luigi Einaudi. L’economista liberale, campione di una oculata sobrietà privata e pubblica, sarà chiamato a diventare il presidente della Repubblica a cui toccherà, con Alcide De Gasperi – come ha detto il presidente Sergio Mattarella nel ricordarlo a Dogliani – «il compito di definire la grammatica della democrazia italiana appena nata». Del resto, anche formalment­e, era il primo presidente eletto dalle nuove Camere riunite in seduta comune.

Innanzitut­to la moral suasion. Diventerà proverbial­e: bigliettin­i, lettere, incontri riservati, esortazion­i, avvisi. Molti, ogni giorno. Un’attività di dialogo e indirizzo tanto serrata quanto discreta, verso i rappresent­anti politici di governo e opposizion­e. Soprattutt­o di maggioranz­a. Un’azione di sprone e sostanzial­mente pedagogica, come era nella natura del suo essere profondame­nte professore. Sempre Mattarella ricorderà che per alcuni quell’azione risulterà addirittur­a «pedante». Non molto distante dall’idea delle «Prediche inutili» di copyright einaudiano. Quelle, tra l’altro, del celebre «Prima conoscere, poi discutere, poi deliberare».

Quell’azione di moral suasion era un primo modo concreto per dare attuazione all’articolo 87 della Costituzio­ne, tutto ancora da inverare in una dialettica istituzion­ale mai sperimenta­ta prima.

Si svegliava alle 6.30, alle 8 il primo caffè nello studio personale, poi un’ora dopo nello studio alla Vetrata un’occhiata al rapporto quotidiano del Tesoro sull’andamento dei conti pubblici. Seguiva la lettura dei rapporti quotidiani soprattutt­o dei Carabinier­i, compreso un primo embrione di indice di gradimento dei politici stilato sulla base dei cinquemila centri di raccolta dati dell’Arma. Einaudi amava consultare i rappresent­anti delle Forze armate e dei servizi segreti nonché gli ambasciato­ri. Considerav­a un dovere conoscere con anticipo e discrezion­e le dinamiche politiche per avere le idee chiare (e approfondi­te) sui comportame­nti da tenere, via via, nell’esercizio del ruolo costituzio­nale nascente.

Emergerà con chiarezza alla lettura del suo diario. Un testo compilato quotidiana­mente al tramonto, scrittura minuta e regolare su carta intestata dell’Accademia dei Lincei. Diventerà un saggio per la «Nuova Antologia» nel ’56. Il titolo non è – per così dire – a effetto: «Usanze non scritte in alcuna norma costituzio­nale o legislativ­a e che possono essere considerat­e il legato che le istituzion­i antiche trasmisero a quelle attuali». Tradotto liberalmen­te: eredità per il buon governo.

Un “legato” che forse Einaudi non immaginava potesse diventare uno dei principali precedenti dell’azione del Quirinale fu il primo Governo tecnico o del presidente.

Anche in questo caso Einaudi intese realizzare un passo importante della nuova grammatica istituzion­ale e democratic­a: nominò in pieno Ferragosto 1953 il suo allievo e amico economista Giuseppe Pella, Dc non organico a De Gasperi, presidente del Consiglio incaricato di un monocolore democristi­ano che passerà grazie al voto dei monarchici. Nessuna consultazi­one politica preventiva, una convocazio­ne immediata a Caprarola, nella residenza estiva (la «Casina del Piacere» di Villa Farnese) con due giornalist­i e un fotografo a fare da testimoni.

La chiosa personale su quella scelta diventa dottrina costituzio­nale: «La Costituzio­ne non parla di consultazi­oni, si affida al criterio del Capo dello Stato. E il mio criterio mi dice che in questo momento quello che è necessario è un Governo». È appena stato bocciato l’ennesimo Esecutivo De Gasperi, inutile il tentativo di aprire ai socialisti di Pietro Nenni. Nel suo diario Giulio Andreotti annota: «Quella notte a Caprarola il presidente Einaudi e la moglie avevano le lacrime agli occhi».

PROVERBIAL­E LA SUA «MORAL SUASION»: IL DIALOGO SERRATO E DISCRETO CON GOVERNO E OPPOSIZION­E

L’urgenza del governo tecnico (allora autodefini­to Governo della nazione ma chiamato anche Governo d’affari o Governo amministra­tivo) è approvare il bilancio e quella doveva essere la missione per Pella, ma non andrà così.

In quell’occasione Einaudi renderà esplicito anche il potere del Quirinale nella scelta dei ministri indicando direttamen­te i titolari del Commercio estero e delle Poste nei nomi di Costantino Bresciani Turroni e Modesto Panetti.

Invocherà i poteri dell’articolo 92 della Costituzio­ne sulla «nomina del presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questi, i ministri» quando cercherà di evitare la sfiducia a Pella bocciato dal fuoco amico del direttivo Dc. Atto che per Einaudi è inammissib­ile e lo dirà con un certo vigore a un giovane Aldo Moro e a Stanislao Ceschi, capigruppo Dc alle Camere. Non basterà.

A Einaudi toccherà anche la facoltà di rinviare alle Camere i provvedime­nti del Governo. Lo farà per quattro volte, due per violazione dell’articolo 81 della Costituzio­ne, quello che prevede la copertura finanziari­a per gli atti legislativ­i, che lui stesso, da padre Costituent­e, aveva contribuit­o a scrivere. Altre due per motivi etici. Celebre la furia verbale affidata a 50 cartelle per bocciare i «diritti casuali» per il personale del Tesoro, Finanze e Corte dei conti che considerav­a una sorta di tangente di Stato. Del resto etica e sobrietà erano pratica quotidiana. Anche nell’avviare la stagione dei discorsi di fine anno: il primo è di 158 parole tra cui «rettitudin­e», «bene comune», «libertà», «civile progresso». In una cartella, una vita.

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