TERRACINI, L’ERETICO FEDELE
Claudio Rabaglino offre un’accurata biografia del protagonista del Pci, polemista e dissenziente rispetto al partito ma sempre convinto dell’importanza di salvaguardarne l’unità
«Un Presidente nato perfetto», lo aveva definito Vittorio Emanuele Orlando, riferendosi alla sua presidenza dell’Assemblea Costituente. Un “eretico fedele”, si dirà di lui dopo la sua morte, riferendosi alle tante posizioni dissenzienti che assunse nella sua vita di comunista, senza mai farne ragione, però, per lasciare il partito. Ecco, ai tanti che di Umberto Terracini (1895-1983) ricordano, al più, queste sintetiche definizioni, Claudio Rabaglino offre una accurata biografia, che di esse fornisce le ragioni e mette a fuoco così sia il personaggio, sia il mondo difficile in cui ha vissuto.
Il personaggio – è questa la prima risposta che ricaviamo da libro – ha di sicuro una personalità poliedrica. Da membro della Costituente si fa valere per le sue posizioni personali, più garantiste e più laiche di quelle del suo partito, ma una volta diventato presidente assume il ruolo e diventa emblema di unità. E tale riesce ad essere nella stessa, difficilissima fase finale, quando il suo partito è uscito dal governo e già si è aperto il solco della Guerra fredda. È nel nome dell’unità – non del suo partito, ma della nazione italiana in costruzione – che convince La Pira a lasciar cadere il preambolo «In nome di Dio il popolo italiano si dà la presente Costituzione». Come non dar ragione a Vittorio Emanuele Orlando?
Nato presidente, ma nato anche e in primo luogo polemista, che è poi la qualità che più ha esercitato nel corso della vita. E qui il libro ci aiuta molto a capire la dialettica che di volta in volta si instaura tra lui e il partito (non senza suscitare, però, qualche domanda finale), su una premessa che per Terracini è un vero e proprio comandamento: è irrinunciabile dire quello che si pensa, ma è non meno irrinunciabile il collettivo di cui si fa parte, senza il quale nulla, neanche le proprie idee personali, potrebbe trovare realizzazione.
Sono molti i casi nei quali i fatti si svolgono in modo tale da dar ragione a questa premessa di Terracini. Sono tutti i casi nei quali il suo dissenso anticipa quella che diverrà la posizione futura del partito. Fu così negli anni 30, quando criticò l’identificazione tra fascismo e socialdemocrazia e il conseguente rifiuto di collaborare con le “forze antifasciste”. Fu così quando, poco dopo, vide una esagerazione in senso opposto, sino all’appello ai “fratelli in camicia nera”. E fu ancora così quando venne teorizzata l’equidistanza fra le forze in campo nella guerra appena scoppiata, nella quale era ovvio per lui che il nemico da battere era il nazismo. Si arrivò, allora, alla sua espulsione (lui era ancora al confino) e ci volle per recuperarlo l’antica amicizia di Togliatti (nata quando, giovanissimi, avevano fondato con Gramsci «Ordine Nuovo»).
Ma soprattutto nel corso della vicenda repubblicana si moltiplicano da parte sua dissensi dei quali fatichiamo a percepire l’esito: sullo stalinismo che vede nel Pci quando esce il rapporto Kruscev, sul compromesso storico nel quale teme una resa alle ragioni della Dc e al quale preferirebbe l’alternativa di sinistra, quand’anche questa disponesse di non più del 51% (ipotesi esplicitamente scartata da Berlinguer davanti allo spettro cileno dei primi anni 70). E infine su Moro, Moro che si fece morire in nome di una fermezza che non è affatto richiesta allo Stato, ma che sembra necessaria a quello che è in realtà uno Stato debole, a copertura della sua debolezza. Sono dissensi importanti, su temi cruciali.
Ebbero una qualche capacità di incidere sulle posizioni contro cui erano rivolti? Ci furono assonanze significative nel “collettivo” che, solo, può dar forza alle idee di chi ne fa parte, dissenzienti inclusi? E se non ci furono, non dovremmo desumerne che c’è qualcosa che non funziona nella premessa di Terracini, alla quale danno tanta evidenza sia Rabaglino, che con essa conclude il libro, sia Aldo Agosti nella sua prefazione?
Quella premessa – lo sappiamo bene – non tutti la condivisero nella storia del Pci e ci fu chi – da Antonio Giolitti a Luciano Cafagna – decise di andarsene nel 1956, perché ritenne il dissenso troppo radicale per essere componibile. Ciò non toglie che altri facessero una scelta diversa e la facessero per non disperdere la comunità che si era formata e che era forse possibile portare su una nuova strada. Giorgio Napolitano e Alfredo Reichlin, pur diversi, furono fra questi. Ma la speranza della strada nuova non fu alimentata da una iniziale predicazione, visse grazie a chi si organizzò nel partito per darle forza. Come fece, appunto, Napolitano con i suoi miglioristi. Nulla di più lontano dall’indole e dalla concreta attività politica di Umberto Terracini, la cui premessa lo portò a pensare che toccasse al collettivo, non a lui, dar forza alle sue posizioni.
Ne avrebbe assunto molte altre negli ultimi anni della sua vita, toccando gli estremi del possibile dissenso di un comunista: arrivò così a dar ragione a Turati, che aveva antevisto l’evoluzione inevitabile dell’Unione Sovietica verso la concentrazione e l’arbitrio del potere (lui, Terracini, era stato fra i più fermi nel volere la scissione del 1921); ed arrivò a diventare amico di Pannella, difendendo le sue battaglie referendarie e gli obiettivi civili per cui le faceva (ma qui c’è chi dice che ci fosse l’influenza della sua seconda moglie, Maria Laura Gaino). Quando tutto questo accadeva, eravamo agli inizi degli anni 80, il distacco del partito dall’Unione Sovietica era ormai nei fatti e le asprezze di un tempo, anche nella gestione dei dissensi, erano venute meno.
A quel punto Terracini era una delle figure storiche del Pci, visto e apprezzato per tutto ciò che era stato. Bastava a concludere che la libertà da lui incarnata era anche carne viva della storia del Pci? Forse no. Ma di quella storia lui comunque era ed è parte.
Claudio Rabaglino Umberto Terracini. Un comunista solitario Donzelli, pagg. 252, € 28