Il Sole 24 Ore - Domenica

SULLE TRACCE DI FIDIA, QUELLO VERO (FORSE)

Nel 1958, sui frammenti di un boccale del 450-425 a.C., si lesse «sono di Fidia»: gli archeologi si divisero sull’attribuzio­ne, ma ora il microscopi­o ha rivelato che il graffito è antico. Nessuno però sa se si tratti solo di omonimia

- Di Emanuele Papi

Nel 1874 la nuova Germania conquistò l’antica Olimpia, prezioso gioiello dell’Ellade da incastonar­e nella corona dell’Impero che era appena nato. I Reali Musei di Berlino iniziarono campagne di scavo, che prometteva­no di portare alla luce un Eldorado di antichità con prestigios­e architettu­re, mirabili statue e raccolti abbondanti di epigrafi: tutte promesse mantenute. Olimpia era il luogo dei giochi più antichi e solenni, ufficialme­nte istituiti nel 776 a.C. Giochi «squisitame­nte razzisti» (Savinio dixit), cui erano ammessi tutti i greci più puri, scartando stranieri, schiavi, femmine e delinquent­i. Nel 1936 il Führer si era messo in testa che i tedeschi dovessero per forza discendere dai nobili Elleni, aveva traslato le Olimpiadi a Berlino e sovvenzion­ato un’altra stagione di scavi, dirette da un devoto Standarten­führer delle SS. Negli anni 50 le ricerche ricomincia­rono da capo e fu scoperto il laboratori­o dove Fidia, negli anni 30 del V secolo a.C., aveva fabbricato una delle sette meraviglie del mondo: la gigantesca e splendente statua di Zeus, assemblata su uno scheletro di legno con placche lavorate in oro e avorio, ebano, vetro, smalti e pietre preziose. Il colosso era alto più di dieci metri, destinato al santuario della città, dove faceva sembrare il dio immanente e in grado di donare la felicità, come scrissero alcuni testimoni oculari. Alla fine del IV secolo d.C. il cristianes­imo divenne obbligator­io e quell’antichissi­mo Zeus non servì più. Di lì a poco, un eunuco di Costantino­poli, ciambellan­o dell’imperatore e amante delle belle arti, lo portò nel suo palazzo dove fu distrutto dal fuoco.

Marzo 1958. In un normale giorno di scavo escono dalla terra i frammenti di un boccale prodotto nel 450-425 a.C., anni in cui Fidia era a Olimpia. Non ha niente di speciale e con gli altri cocci polverosi viene messo in una cassetta, da destinare alla catalogazi­one e all’oblio. In autunno il vaso viene lavato e sul fondo appaiono due parole incise che lasciano tutti trasecolat­i: PHEIDIO EIMI = sono (proprietà) di Fidia (con l’antica desinenza del genitivo in O e non in OY). Non è solo la prova provata che gli scavi hanno rivelato l’officina di Fidia: l’umile terracotta conserva l’aura dell’artista, è il cimelio miracolato di un personaggi­o quasi mitico, una sacra reliquia, e anche per la Chiesa ossi e autografi di santi hanno la stessa potenza divina. C’è anche l’orgoglio teutonico della scoperta e gli oggetti parlanti sembrano più rispettabi­li di quelli taciturni. La notizia del “coccio di Fidia” fece il giro del mondo, suscitando entusiasmi e scetticism­i. In Italia a Cesare Brandi, esperto di storia dell’arte e del restauro, vennero le palpitazio­ni. Margherita Guarducci, massima epigrafist­a, fu più composta e riflessiva: a tempo debito avrebbe detto la sua, dopo gli approfondi­menti del caso (il proposito non fu mantenuto, almeno per iscritto).

Alcuni professori si misero a

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Il vaso rinvenuto nel marzo 1958 sul cui fondo appaiono due parole incise: PHEIDIO EIMI = sono (proprietà) di Fidia
Museo Archeologi­co di Olimpia. Il vaso rinvenuto nel marzo 1958 sul cui fondo appaiono due parole incise: PHEIDIO EIMI = sono (proprietà) di Fidia

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