LO STORYTELLING DEL PAZZO CHE CAPì LA MODERNITà
Il ritratto di Piranesi eseguito da Pietro Labruzzi un anno dopo la morte, ci mostra il volto pensoso di un artista intellettuale: colorito incarnato, sguardo lievemente accigliato rivolto verso un incognito interlocutore, il piglio rassicurante che ben si addiceva all’inventore di una bottega di grande successo.
Più fedele alla sua vera natura, il ritratto che gli fece Felice Polanzani come frontespizio alla raccolta di Opere varie, dove appare con il sembiante luciferino di un “genio” baluginante dentro i fumi di un inquietante paesaggio notturno, secondo l’azzeccata definizione di «mente nera», coniata molti secoli dopo da Marguerite Yourcenar.
Disegnatore, mercante d’antichità, architetto veneto trapiantato a Roma, e soprattutto visionario interprete, nell’Europa dei Lumi, del sublime romantico che scaturiva dalle ceneri della ragione, Giovanni Battista Piranesi (1720-1778) conobbe una grande fama e fu temuto sia da ammiratori (Horace Walpole lo descrisse «selvaggio come Salvatore Rosa, violento come Michelangelo ed esuberante come Rubens») che da avversari che coniarono per lui gli appellativi di «cavalier pasticci» e di «mad man».
Di lui colpivano le straordinarie vedute di un’antichità che sembrava prender corpo dalle sue stesse rovine.
Se la sua opera grafica gli assicurò l’eternità, ci sono altri motivi a determinarne l’attualità: la scrittura tagliente, a volte beffarda, delle parole con cui accompagnava le sue raccolte di incisioni. Ed è il punto su cui si sofferma Pierluigi Panza nel suo ultimo lavoro sul terribile «cavaliere»: «perché Piranesi, che era un artista in via di affermazione dopo il 1756, si mise a scrivere come un erudito?».
Inserito nel mercato romano, Piranesi era a capo di una casa-bottega che macinava scudi, una vera e propria fabbrica di immagini dell’antica Roma, che negli anni d’oro del Grand Tour attirava con il miele delle sue straordinarie incisioni collezionisti di tutt’Europa. Forse fu proprio la solidità economica, suggerisce Panza, a spingerlo a un impegno militante, ma, dal tenore delle sue invettive, c’è da credere che quello fu solo un prerequisito per poter finalmente esprimere a gran voce la sua particolare concezione dell’architettura. Nella divisione (allora come oggi) tra architetti praticanti ed eruditi accademici, cominciava a essere evidente la differenza tra le armi del mestiere del progettista e le penne dei letterati: e infatti proprio a questa metafora visiva Piranesi ricorse in uno dei suoi più polemici atti d’accusa, contrapponendo al calamo dell’erudito gli strumenti del capomastro.
In un’Europa dove il classicismo greco era considerato l’origine di un’architettura modellata dalla proporzione e dalla ragione, Piranesi levò la voce di un sovranismo culturale fondato sulla storia o almeno sulle tracce lasciate al suolo. Come nel Dopoguerra Bruno Zevi sostenne l’origine dell’architettura moderna dall’organicismo di Wright contro la tesi della sua derivazione dal Bauhaus, per Piranesi il razionalismo presunto dei Greci era poco più di un balbettio infantile davanti alla «magnificenza» romana. Per il «pazzo» Piranesi le rovine romane appaiono il contraltare della «capanna primitiva» in cui si voleva incarnato il principio di una razionalità fondata sulla semplicità della Natura. Lui amava l’eccesso e l’invenzione rispetto all’imitazione e vedeva nell’ornamento la vera differenza tra gli anoressici seguaci del mutismo architettonico e la ricchezza espressiva documentata dai complessi ruderi dell’antica Roma. Tesi riecheggiata nell’Ottocento da Carlyle, quando nel suo caustico Sartor Resartus (il Sarto rappezzato) sostenne la difesa dell’abito e dell’ornamento come tipiche forme di espressione umana e di riscatto dalla monotona ripetizione della natura. Se il cavallo non ha bisogno di abiti perché fornito di peli, l’uomo attribuisce all’abito la funzione di rappresentarne lo status piscologico e sociale.
USAVA IL FORMAT DEL DIALOGO TRA DUE PERSONAGGI FITTIZI, IL «RIGORISTA» FEDELE AL CANONE GRECO, E L’EVERSIVO (CIOè LUI)
Non solo: Piranesi inventò un linguaggio che assomigliava a quello che oggi si direbbe uno storytelling per dimostrare la supremazia italica e la proposizione di un contro-canone fondato sulla trasgressione e sull’invenzione invece che sull’imitazione. Per colpire più direttamente i lettori, ricorse così al format del dialogo tra due personaggi fittizi – Protopiro e Didascalo – che incarnavano rispettivamente la figura del “rigorista” fedele al canone greco della semplicità e dell’eversivo (cioè lo stesso Piranesi) sostenitore di un’architettura come artificio che la distingue dall’ordinaria costruzione in muratura. Anticipando l’altrettanto celebre dialogo tra Socrate e Fedro inscenato da Paul Valery in Eupalinos, Piranesi va direttamente al cuore di un tema che investe la nostra stretta contemporaneità: il rapporto tra Natura e Artificio. L’artificio è ciò che distingue l’uomo dall’animale che è nudo: togliete il piacere dell’ornamento e vi rimarrà solo la tabula rasa, l’azzeramento dei linguaggi e l’impoverimento della fantasia. In un’epoca in cui anche la filosofia ha riscoperto il valore del tatuaggio come resistenza all’omologazione, la voce di Piranesi risulta dunque straordinariamente incisiva, riproponendo il valore della critica contro la globalizzazione e la necessità di approfondire la complessità senza rifugiarsi nella nostalgia della semplificazione.
Pierluigi Panza Piranesi gli scritti Electa, pagg. 288, € 28