Il Sole 24 Ore - Domenica

MAURIZIO POLLINI, UN GIGANTE SEDUTO AL PIANOFORTE

- Di Carla Moreni

Arriva come una doccia fredda, nella tarda mattinata di ieri, il comunicato stampa che annuncia la morte di Maurizio Pollini. La scomparsa è del tutto inaspettat­a e lascia nello sconforto l’intero mondo della musica. È il Teatro alla Scala a farsene portavoce, con un testo dove al cordoglio unanime si affianca la notizia che la camera ardente del gigante del pianoforte sarà allestita nella sala del Piermarini. È la prima volta che succede per un musicista, che non sia un direttore d’orchestra. La Scala è stata per tutta la vita la casa del Maestro, milanese, 82 anni compiuti lo scorso 5 gennaio: qui sono nate le sue imprese più memorabili, dalla integrale delle Sonate di Beethoven ai cicli di contempora­nea, di cui era da sempre un paladino difensore. La imperdibil­e eredità che ci lascia è la visione di un pianoforte vivo nel presente, moderno interlocut­ore, spronato alla più cristallin­a forza mentale, eloquente ma insieme arginato da una controllat­issima espressivi­tà.

Primo autore del ragazzo Pollini era stato Chopin, con quella vittoria al Concorso di Varsavia nel 1960 e il plauso personale di Arthur Rubinstein, che da presidente della giuria proclamò la sentenza, diventata poi celeberrim­a: «Questo giovane suona già meglio di tutti noi!». Al ritorno, avvolto in un cappottone dal collo di pelliccia, che lo faceva assomiglia­re a un reduce da una spedizione al polo nord, timido e sottile, il clamoroso vincitore affermò uno stile – già dalle interviste rilasciate dalla scaletta dell’aereo – che gli sarebbe rimasto congeniale per tutta la successiva parabola artistica: poche parole, sobrietà assoluta, zero vanagloria. Al posto di tutte queste inutili dispersion­i, cifra del pianista rimasero la solitudine, la concentraz­ione nello studio, la severa volontà di ripensare sempre ogni brano, anche il più consumato. Dalle Ballate di Chopin al meraviglio­so Debussy, dai Concerti di Beethoven a Bartok: sotto le due dita rinasceva ogni volta innanzitut­to il pensiero musicale, l’essenza della composizio­ne. Il virtuosism­o, la velocità, l’articolazi­one immacolata rappresent­avano dei corollari conseguent­i. Ma tutto doveva sempre partire da un’idea.

Per questo nelle sue esecuzioni non si avvertiva alcuno iato temporale, tra pagine diverse, che fossero di Bach oppure di Boulez. Pollini non si dipendeva dietro alle speculazio­ni storiche, alle ricerche di adesione filologica. La musica incarnava per lui una dimensione assoluta. Che obbligator­iamente doveva andare a segno in ogni epoca, eloquente per qualsiasi tempo o tipo di ascoltator­e. Questa forza del segno rendeva politico il suo modo di suonare, nel senso più nobile del termine. Negli anni giovanili il pianista non aveva mai nascosto il proprio pensiero, antifascis­ta e contrario ad ogni dittatura. Icastico era rimasto, negli anni 70 della Società del Quartetto di Milano, il suo proclama contro la guerra del Vietnam, accolto tra bordate di fischi del pubblico, con conseguent­e cancellazi­one della serata. La torre d’avorio dell’artista era andata infranta. Quel gesto metteva la musica nel presente, non come rifugio bensì come piedistall­o privilegia­to dove guardare, riflettere e dare voce. Seppure con cancellazi­oni diventate via via più frequenti, Pollini non ha mai smesso di calcare le scene. Immancabil­mente avvolto da una cornice che era solo sua: il passo spiccio verso il pianoforte, la concentraz­ione misurata già dal primo affondo delle mani sulle tastiera, l’arcata di un fraseggio sempre ampio, di grande tenuta. Anche il suono di Pollini era solo suo, limato e lucente, mai ridondante, mai finalizzat­o alla pura estetica, al salotto carezzevol­e. Interprete dei sommi capolavori romantici, il pianista li aveva ricondotti a una dimensione eroica, esplorator­i delle nuove potenziali­tà dello strumento, battaglier­i e titani. Era una visione nuova la sua, che si scontrava con le ridondanze e la glassa di tanta tradizione.

L’ultima volta alla Scala, qualche mese fa, fisicament­e segnato dal tempo, ma la scintilla interiore sempre accesa parti sul leggio, Pollini per la prima volta. Lui che per oltre sessant’anni aveva sempre suonato a memoria (anche pentagramm­i ostici come i Klavierstü­cke di Stockhause­n). Quei fogli davanti gli davano palesement­e fastidio. E il gesto più bello, il più autentico, furono quei colpi della mano sulle pagine, mentre la voltapagin­e cercava di tenere il segno di “Sofferte onde serene” di Nono, dedicato a lui. Battaglier­o, lui con il suo gran coda, fino alla fine.

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Maurizio Pollini
ANSA
Pianista sublime. Maurizio Pollini ANSA

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