LE FETTUCCINE DI ALFREDO E LA LORO CASA
Un piatto nuovo e due divi del cinema muto. Poi un architetto razionalista del ventennio, il boom economico e la dolce vita. Il diritto vivente – e con lui la tutela dei beni culturali – progredisce anche così, per strade impensate. 1920, Roma. Sono in viaggio di nozze. Douglas Fairbanks e Mary Pickford – la coppia regina di Hollywood – assaporano in un ristorante fettuccine sapientemente condite con burro e formaggio. Non sono le prime celebrities ad andarci, ma la loro visita accresce moltissimo la fama del padrone di casa e inventore della ricetta, Alfredo Di Lelio. Che negli anni 50 sposta la sede del locale eponimo. Il suo destino incrocia quello di Vittorio Morpurgo, scampato alle leggi razziali e progettista del palazzo al cui piano terra il nostro chef si trasferisce. L’edificio ha linee moderniste (in versione monumental-piacentiniana), prospetti adorni di mosaici, bassorilievi e dipinti murali. Per il suo interesse storico e artistico, nel 2006 il ministero dei Beni culturali impone il vincolo su tutta la costruzione.
Arriviamo al 2018. Questa volta il ministero attraversa la linea di frontiera. Non vincola solo gli interni del ristorante,insiemeconilavoridiGino Mazzinieglielementid’arredo(come leappliquesdiSciolari).Sispingeoltre. Utilizzando una norma entrata dal 2008nelcodicedeibeniculturali,vincola anche il patrimonio immateriale incorporatoinquell’attivitàeconomica: racchiuso «nella continuità ininterrotta dell’unione tra locale ristorante, arredi e opere artistiche, tradizione enogastronomica e sociabilità che, dai primi anni cinquanta a oggi, hanno reso il ristorante uno spazio fisico e simbolico di accoglienza e di incontro di mondi e individui dalla provenienza geografica e sociale estremamente diversificata; un teatro di frequentazioni e di eventi pubblici e privati significativi da parte di personaggi illustri italiani e stranieri e di gente comune». Di qui – continua il decreto ministeriale – «un insieme estremamente ricco e composito di storie e memorie – tramandate dalle narrazioni e dai gesti di camerieri, cuochiegestori–,lacuipreservazione consente uno sguardo inedito sul costume e sulla vita della città di Roma, a partire dal dopoguerra, passando per gli anni della dolce vita fino ai recenti sviluppi del turismo internazionale e di massa nonché su aspetti peculiaridellacostruzionedell’immaginario dell’italianità all’estero».
È una scelta coraggiosa, quasi di rottura nei confronti di un pensiero filosofico-giuridico consolidatosi a partire almeno dalla relazione della commissione d’indagine per la tutela del patrimonio storico, archeologico, artistico e del paesaggio (la «commissione Franceschini», dal nome del suo presidente): la quale nel 1966 qualificò come culturale ogni bene «che costituisca testimonianza materiale avente valore di civiltà». Materiale, appunto. Si poteva, in breve, proteggere e quindi vincolare solo una cosa, una res; ma non un’attività, un uso specifico di un bene, una prassi. Detto in “giuridichese”, è il principio di realità nella tutela.
Il decreto ministeriale accende un aspro contenzioso davanti al giudice amministrativo. Da una parte la posizione tradizionalista, che invoca quel principio di realità: un’attività di ristorazione, anche se «attraversata» dalla storia in un modo specifico, unico e irripetibile, non può essere un bene culturale. Mancherebbe quel sostrato tangibile, fisico e oggettuale, che l’impianto complessivo del codice pretende come presupposto per la tutela. Di contro, la lettura evoluzionista, che valorizza al massimo la norma del 2008 già utilizzata dal ministero: secondo la quale sono assoggettabili a vincolo «le espressioni di identità culturale collettiva contemplate dalle Convenzioni Unesco per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale».
Anche i magistrati sono divisi. Il Tar Lazio annulla il vincolo, la cui imposizione peccherebbe di «arbitrarietà per mancanza di base giuridica»: a suo avviso, la norma del 2008 non ha cambiato la nozione di bene culturale, la quale invece «resta giustamente ancorata al concetto tradizionale di oggetto materiale, e non investe le attività culturali». Si giunge in Consiglio di Stato, che investe il proprio vertice decisionale, l’Adunanza plenaria. Il verdetto – di poco tempo fa – è opposto rispetto al Tar: «possono essere tutelati, mediante un vincolo di destinazione d’uso, anche i beni che sono espressione di una identità collettiva (perché in quel bene o per suo tramite sono accaduti eventi di rilevanza storica e culturale ovvero perché personaggi storici e illustri vi hanno trovato, in un dato momento, la loro collocazione), per i quali si riconosca l’impossibilità di scindere le dimensioni materiali da quelle immateriali, stante la loro immedesimazione».
Il principio di realità s’avvia così al tramonto. Qualcuno lamenta l’abbandono della tradizione. Basterà ricordargli che essa – diceva Borges – non è che una trama secolare di avventure.