UMANESIMO DELLA TECNICA
Una riflessione a partire dalla lettura di Giovanni Gentile sulla dignità dell’uomo: individuo che pensa e fa, conosce e costruisce
Una fra le pagine più intense, e vibranti di passione filosofica, è dedicata da Giovanni Gentile all’“Umanesimo del lavoro”. Si trova nel libro estremo, Genesi e struttura della società (e da ultimo può leggersi nell’edizione, introdotta da Gennaro Sangiuliano, del 2021). Alla cultura d’un tempo, che era soprattutto esercizio di intelligenza artistica e letteraria, succede ora la umana cultura del lavoro. «Lavora da uomo, con la coscienza di quel che fa, ossia con la coscienza di sé e del mondo in cui egli s’incorpora».
In questo “lavoro”, con il quale l’uomo s’impossessa della natura, e la vince e la fa propria, ritorna la prassi di Carlo Marx, che Gentile aveva già indagato nel libro della giovinezza, La filosofia di Marx, del 1899, e che indurrà Ugo Spirito, allievo devoto e inquieto, a discorrere di un “Gentile socialista”. È il lavoro dell’uomo faber sui ipsius, di un individuo che pensa e fa, che insieme conosce e costruisce.
In quella medesima pagina Gentile parla di «coscienza della umana universale dignità». E ci riappare la dignitas hominis, che, scoperta ed esaltata nel nostro Umanesimo e Rinascimento, è ora entrata, e vi domina come fondamentale principio, nelle Costituzioni nazionali ed europee. Lo scrupolo critico, che non può certo risparmiare le solenni dichiarazioni delle leggi positive, distingue due modi di concepire l’umana dignità, e così contrappone alla “teoria della dotazione” una “teoria della prestazione”. La prima, spesso d’intonazione religiosa o naturalistica, spiega la dignità come qualità o proprietà originaria dell’individuo. L’altra concepisce la dignità dell’uomo come un prodotto del proprio agire, come prova della soggettività umana, come costruzione della propria identità. Dignità dell’uomo perché è; dignità dell’uomo perché fa.
Il fare dell’uomo non è disgiungibile dalla tecnica (parola, se non m’inganno, inconsueta nel lessico filosofico di Giovanni Gentile, che pure ne avverte e descrive l’essenza più profonda). Dire “lavoro”, nella modernità che andiamo vivendo, significa dire “tecnica”, cioè possibilità di azione, che a mano a mano si distaccano dalle energie individuali e assumono l’oggettività di forme esterne. Il processo della tecnica, quale si svolge dall’utensile alla macchina motrice e fino agli apparecchi automatici, è dominato dalla logica dell’oggettività.
Proprio un tale sviluppo suole ridurre la tecnica a strumento, oggetto utile che il soggetto, l’homo faber, impiega, di volta in volta, per raggiungere proprî scopi. E poi getta da canto, ripone in soffitta, e passa oltre. Nulla è stato, ed è, più dannoso agli studî, che la concezione strumentale della tecnica, come un che di estraneo e contrapposto al soggetto: capace bensì di civilizzazione materiale, ma non di cultura e di umana dignità.
E così essa viene degradata a “inumana” o “disumana”.
Alla tecnica si muove anche accusa – che sembra la colpa più grave e inespiabile – di “artificialità”. Ma l’accusa dimentica che l’intero mondo umano, e tutto ciò che veniamo costruendo a fatica nel nostro cammino terreno, è artificiale. Non trovato in rerum natura, non donatoci da misteriose divinità, ma “fatto con arte”, con esercizio di umano pensiero e umana volontà, e con applicazione di tutte le attitudini e capacità che l’individuo scopre e rivela in sé stesso.
Artificiali, in questo proprio e non volgare senso, sono non soltanto le cose tutte che formano l’abitazione terrena dell’uomo – e città e strade e apparati produttivi, e così seguitando –, ma anche i rapporti sociali, e le stesse norme giuridiche. Che noi non troviamo nella cosiddetta realtà, né riceviamo dall’alto, ma costruiamo con la nostra volontà di dominare cose e uomini: donde nasce la rara e ammirata tecnica giuridica, con cui gli uomini disciplinano forme e modi della convivenza. “Nostre – aveva già scritto, a mezzo il secolo decimoquinto, l’umanista fiorentino Giannozzo Manetti (De dignitate et excellentia hominis) – sono tutte le invenzioni, quasi infinite ... Nostri sono infine tutti i ritrovati, che ammirabili e quasi incredibili la potenza e l’acume dell’ingegno umano, o piuttosto divino, volle costruire ed edificare …». Artificialità non significa imitazione della natura, abile e fedele reiterare fenomeni e aspetti del mondo esterno, ma soprattutto creazione di nuove forme e strutture, capaci di svolgere funzioni proprie dell’essere umano. Sul terreno di giuoco, a dir così, non siamo più in due, l’uomo e la natura, ma in tre. L’uomo, la natura, e gli artefatti, ossia le creature dell’artificialità tecnica.
Si giunge così, sulla linea di pensiero tracciata da Gentile, dalla dignità umanistica e letteraria alla dignità del fare, e perciò alla dignità della tecnica, la quale non si lascia ridurre a inerte e passivo strumento, ma appartiene, tutta intera, al regnum hominis, al mondo dell’umana volontà e alla sua potenza di scegliere e perseguire indefiniti scopi. E la dignità del lavoratore non si esaurisce e risolve nella fisicità dei singoli individui, non in una sorta di primigenia e nuda naturalità, ma si estende a tutte le opere dell’uomo, le quali trattengono la dignità del loro autore e la logica interna al suo fare. Se codesto fare crea nuove forme e strutture, e popola il mondo di congegni tecnici, il crisma della dignità si imprimerà su altri metodi di lavoro, su diversi rapporti e schemi di attività produttiva. Ma sempre toccherà il lavoro, che sia ancora abilità della mano o si innalzi a oggettiva funzione nel sistema tecnico.
A così alta considerazione del fare umano, che non è indistinto e oscuro, ma un tutto di pensiero e azione, ci conduce e ci lascia la pagina estrema di Giovanni Gentile.