FAVOLA GNOSTICA IN UNA TORINO CUPA E LABORIOSA
Aprendo il primo libro di uno dei pochi grandi italiani del Novecento, Elémire Zolla, si ha un’espressione di straniamento. Non solo perché siamo abituati alla sua straordinaria scrittura saggistica, ma anche per un fatto particolare. Per i contemporanei, il premio Strega è la quintessenza dei giochi di potere e ogni anno si sa con molto anticipo chi lo vincerà. Invece in quel lontano 1956 il premio Strega Opera Prima era arrivato a un esile trentenne «in abito scuro, timido, ma che si assicura intelligentissimo».
Per fortuna a guidarci c’è la straordinaria prefazione di Grazia Marchianò, sua compagna di vita e di avventure spirituali che, dopo un’insostituibile biografia, Il conoscitore di segreti, sta pubblicando per Marsilio tutta l’opera di Zolla, a lungo collaboratore anche di queste pagine.
Ma è proprio allora che si può percepire tutta la differenza tra il giovane Zolla e i suoi contemporanei.
Infatti, forte di quel riconoscimento, avrebbe potuto intraprendere la tradizionale carriera del letterato come aveva fatto, vari anni prima di lui, una sua frequentazione, Alberto Moravia. Ma a quel trentenne schivo non interessavano i premi né gli onori, anche se allora, come nel suo caso, poteva ancora girare la ruota della fortuna.
Pochi conoscevano il difficile percorso che aveva portato il suo libro alla pubblicazione. I lettori di Einaudi (allora personaggi come Fruttero, Fenoglio, Vittorini e Calvino) erano rimasti sorpresi da quel romanzo così tortuoso e “decadente”, tanto lontano dalla retorica realista dei «Gettoni» in cui doveva essere pubblicato.
Solo Fruttero era riuscito a incrinare il no di Vittorini, per il quale «lo Zolla è solo cupamente fantasticante; un incubo puramente libresco». Alla fine però Vittorini aveva ceduto, lasciando uscire quella «favola gnostica»: in una Torino «cupa e laboriosa», logorata dalla dittatura fascista, in cui si annodano pigramente le vicende di torbidi amori, fa irruzione un inquietante terzetto: un Demiurgo, Satana e un Dittatore. I tre condannano il ricco alla povertà e il fatuo all’umiliazione più grande, la normalità. «Si adatterà a essere come tutti gli altri, si conformerà, andrà alla partita di calcio, si esprimerà con luoghi comuni». Un colpo di scena sostenuto soprattutto da quella che si stava rivelando la grande scrittura di Zolla. «Si dice», conclude Marchianò, «che uno scrittore scriva per l’intera vita un unico libro dove svolge la formula cifrata del proprio destino. Mentre lo stile si acquista col tempo, la grazia del tema dominante è un dono concesso una sola volta».
Elémire Zolla
Minuetto all’inferno Cliquot, pagg. 288, € 20