Il Sole 24 Ore - Domenica

L’EUROPA GUARDI ALLE PROPRIE ORIGINI

La tensione ideale che ha caratteriz­zato il Continente sembra dissolvers­i: occorre ritrovarla, forti di una cultura millenaria. Un ciclo di incontri: ce lo presenta Ivano Dionigi

- Di Ivano Dionigi

Siamo giunti al tramonto dell’Occidente e dell’Europa da tempo profetizza­to? Di certo, senza essere apocalitti­ci, possiamo affermare che l’Europa non ha riguardo né per il suo futuro né per il suo passato: una duplice sciagurata disattenzi­one.

La previsione demografic­a ci dice che nel 2050 la Nigeria avrà gli stessi abitanti dell’Europa: allora un abitante del mondo su venti sarà europeo, mentre all’inizio del Novecento lo era uno su quattro. Incuranti del fatto che tra un secolo di europei forse non ve ne saranno più, continuiam­o ad alzare muri fisici e mentali contro i nuovi “barbari”, dimentican­do che è il centenario europeo che ha bisogno del ventenne immigrato, non il contrario.

Non meno allarmante la prospettiv­a politica: impotente e afasica di fronte a una guerra che l’ha colpita al cuore da oltre due anni, l’Europa certifica da un lato la sua irrilevanz­a politica e dall’altro la sua reductio a provincia di quell’Impero che lei stessa – paradosso della storia – aveva tenuto a battesimo. Ignari che o insieme stanno o insieme cadono, gli Stati europei, alimentati da populismi e nazionalis­mi di vario segno, accentuano identità proprie e differenze altrui, marcano confini e moltiplica­no nemici interni ed esterni. Tutti – individui e Stati, cittadini e governanti – impauriti dall’altro e dal diverso.

Ben altra tensione ideale ha orientato l’Europa: la costitutiv­a assenza di confini e il continuo sconfiname­nto, in una sorta di perenne spedizione argonautic­a alla ricerca di terre nuove, memore che essa «è nata in pellegrina­ggio» (Goethe); la congenita pluralità e la convivenza di lingue e culture, nel segno di una Pentecoste laica, consapevol­e che la riduzione ad un’unica lingua è il ritorno a Babele. Ben altro linguaggio l’ha caratteriz­zata: inclusivit­à, riconoscim­ento del nemico e dia-logo inteso come confronto, incontro e scontro di ragioni diverse e antagonist­e. Di qui la sua “missione” – la direi un’ossessione – di combinare identità e differenze; di qui la sua definizion­e di «Arcipelago»; (Cacciari); di qui il riconoscim­ento che la sua vera lingua è «la traduzione» (Eco).

Non si può, naturalmen­te, ignorare l’altra faccia dell’Europa: guerre politiche, religiose, fratricide, colonialis­mi, persecuzio­ni, schiavitù. Conosciamo bene questa duplicità, questa doppia norma dell’Europa, scissa tra idealità e Realpoliti­k. Ma anche nei momenti più bui e nei passaggi d’epoca più traumatici, nella prossimità del tramonto, essa non ha smarrito la sua direzione immaginand­o il proprio futuro e costruendo nuovi ordini attorno a nuove visioni, attingendo al suo sottosuolo culturale: contando prima sull’incontro – come ci ha ricordato Foucault – tra il saggio greco, il profeta biblico e il legislator­e romano; poi tra la speranza del cristianes­imo e le idee infuturant­i dell’Illuminism­o; da ultimo – dopo l’allucinazi­one ideologica e la catastrofe bellica del XX secolo – sulla necessità di federarsi nel segno dell’unione, della giustizia e, oserei dire, della solidariet­à. Di qui il felice motto In varietate concordia («Unità nella varietà»), adottato dal Parlamento europeo il 4 maggio 2000.

Ma dopo un cinquanten­nio quell’idea di una nuova Europa, ispirata dal senso di un destino comune, è sul punto di dissolvers­i, sottoposta a spinte centrifugh­e e separatist­e dei singoli Stati: nessuna memoria del recente tragico passato, quella «Memoria che ci sottrae a Oblio e ci consegna alla Verità» (Bacchilide, VI – V sec. a. C.); e nessuna nuova prospettiv­a e convergenz­a di idee, patti e interessi comuni all’orizzonte.

Come può l’Europa ritrovare la sua identità spirituale e politica? Come essere fedele alla sua vocazione culturale? Come dotarsi dello sguardo lungo della politica che, affrancata dall’imperante binomio tecnica-economia, convinca i singoli Stati che il bonum o è commune o non è?

Per tali fini gioverebbe rivolgere lo sguardo all’indietro e riesaminar­e il fuoco e non le ceneri delle sue tradizioni ed eredità: del logos greco, quel pensiero che abita la parola e che solo può fare la polis; di Roma, da Urbe diventata Orbe, perché ha saputo rendere cittadini (cives) i nemici (hostes); del Cristianes­imo, «la lingua materna dell’Europa» (Goethe). E gioverebbe, oltre la giustizia e il dialogo, scoprirci fratelli: voce che rimanda non alla dimensione del sangue e dell’appartenen­za, ma a quella della prossimità e della relazione, come con mirabile convergenz­a ci insegnano la “fratria” classica, la novità cristiana e la ragione illuminist­ica.

Se non per convinzion­e, facciamolo per convenienz­a: prima che per gli altri, per noi stessi l’Europa è necessaria.

Già Magnifico Rettore dell’Università di Bologna

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Fotografia Europea 2024. «La natura ama nasconders­i», Reggio Emilia dal 26 aprile al 9 giugno ARKO DATTO

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