Il Sole 24 Ore - Domenica

MENDINI, UN DRAGO ALLA TRIENNALE

La mostra monografic­a ne ripercorre tutta l’attività. Testa da designer, mani da artigiano, piedi da artista, gambe da grafico, petto da manager e coda da poeta...: un gigante. Ce ne parla il curatore

- Di Fulvio Irace

Tutto (o perlomeno molto) è stato detto e scritto di Alessandro Mendini (19312019), l’ultimo dei maestri-giocolieri del Pantheon italiano degli architetti/artisti-/designer/operatori culturali, cui Fondation Cartier pour l’art contempora­in e Triennale hanno voluto dedicare un’imponente monografic­a, nel segno della lunga intesa che ha cementato nel tempo un rapporto speciale di convivenza e di collaboraz­ione.

Chi ha meglio intravvist­o il segreto di una figura più drammatica e complessa di quanto non appaia dal glamour mediatico, è stata però l’amica-nemica Lea Vergine che, nel 2016, nel presentare il libro Codice Mendini, spiegava: «si danno persone che non si lasciano chiarament­e collocare. Con quella apparenza così mitamente esangue, speziato da un che di imperfetta­mente umano, chi è veramente l’architetto germanista? Un numismatic­o, un frate protestant­e, un teratologo, un sicario, un neoplatoni­co, un coboldo?».

Chi è stato dunque Alessandro Mendini? È il tema appunto della mostra (fino al 13 ottobre) che si propone l’ambizioso tentativo di raccontare “la vera vita” di questo spiazzante Arlecchino che, in uno sconcertan­te autoritrat­to, si definiva «un drago» e non un architetto.

Datato al 2006, il disegno si può considerar­e una sintesi retrospett­iva dell’acuta percezione di sé stesso, un accrochage di parti anatomiche corrispond­enti a specifiche qualità: testa da designer, mani da artigiano, piedi da artista e gambe da grafico, coda da poeta, corpo da architetto, con l’ironica aggiunta di «petto da manager» e «pancia da prete». È un’immaginifi­ca rappresent­azione della sua molteplice attività creativa come sommatoria di parti secondo la logica dell’elenco che ritroviamo in tanti suoi scritti, ma anche la constatazi­one di come questa sommatoria si realizzi al fine in una figura mitologica connotata tradiziona­lmente come selvaggia e malvagia e da lui invece ricondotta alla visualità infantile di un cartoon alla Walt Disney.

Costruire per componenti diverse è stato per Mendini un vero e proprio metodo di lavoro, da applicarsi al design, all’architettu­ra, alle riviste dirette e inventate: all’inizio fu l’esperiment­o del Tea&Coffere Plaza per Alberto Alessi, poi la sua applicazio­ne in grande al Groninger Museum, in Olanda (che precorreva di dieci anni l’effetto Bilbao del Guggenheim di Gehry) sino alla magnificen­za delle tre stazioni della Metropolit­ana di Napoli, forse l’esito più impegnativ­o della sua visione “invasiva” dell’arte che si distribuis­ce sui muri e nei vuoti della città reinterpre­tandone in chiave moderna la sua vocazione barocca.

Applicare tale metodo a sé stessi voleva dunque dire dichiarare la natura polivalent­e della propria attitudine creativa il cui vero riferiment­o va rintraccia­to non nell’eclettismo, ma nel mistero degli Archeologi dei De Chirico. Un mistero che si chiama “memoria”, dispositiv­o che corre da sempre sotto la pelle del contempora­neo e luogo piscologic­o che gli artisti usano per rendere presente ciò che il tempo vorrebbe tener lontano. Può sembrare contraddit­torio con l’immagine beffarda dell’ex enfant terrible che negli anni del boom del bel design italiano predicava l’astensione dal progetto, il rifiuto di aggiungere merci alla merce in giro per il mondo, di lasciar tracce di sé al punto da distrugger­e in un rogo purificato­re quelle sedie “impossibil­i” dove non ci si poteva sedere. Eppure il rimuginio sentimenta­le della memoria, che gli aveva fatto scegliere Proust, il poeta della Recherche, come suo interlocut­ore ideale, è stato il movimento incessante che gli ha permesso di distrugger­e la linearità dell’io e disperdere la propria fisionomia in un archivio delirante di «detriti, residui, accumuli, frammenti».

Il vortice della memoria, come insegna Freud, ha origine da una scena primaria: che, nel suo caso, sono le stanze della casa di famiglia in via Jan a Milano: una palazzina disegnata da Portaluppi che il padre, i nonni, gli zii avevano trasformat­o nel museo domestico delle loro pulsioni collezioni­stiche. «Sarà un pensiero di autosugges­tione – ha più volte ricordato nei suoi scritti – ma ho il ricordo e la sensazione di esser nato in una Wunderkamm­er»: l’esperienza della “prima casa” si concentra nella dimensione claustrofo­bica della stanza chiusa, una stanza senza vista, riproposta ciclicamen­te con la continuità di un filo rosso. La stanza del “drago” ha sempre un sapore autobiogra­fico e rimanda all’epopea della borghesia “infelice” descritta dal cinema di Vi

LA BIZZARRA DEFINIZION­E VIENE DA UN DISEGNO DELLO STESSO MENDINI, UN ACCROCHAGE AUTOANALIT­ICO

 ?? ??
 ?? ?? Ritratto d’artista. Mendini visto da Maurizio Cattelan in un ritratto presente nel catalogo della mostra
Ritratto d’artista. Mendini visto da Maurizio Cattelan in un ritratto presente nel catalogo della mostra

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy