A MALTA, PRIMA BIENNALE IN NOME DELL’INSULARITÀ
La Repubblica democratica di Malta festeggia i suoi primi cinquant’anni giocando d’anticipo; infatti, prima di debuttare alla Biennale di Venezia (20 aprile-24 novembre) con il suo padiglione nazionale alle Artiglierie dell’Arsenale, ha inaugurato lo scorso marzo la prima edizione della Biennale d’Arte di Malta (maltabiennale.art). L’iniziativa, sostenuta da Heritage Malta attraverso MUŻA, il Museo Nazionale d’Arte, è un’occasione unica per visitare un’isola intrigante e ricca di storia, dove le vestigia di un passato glorioso – quando appartenne all’Ordine militare e ospedaliero dei Cavalieri di Malta e poi fu colonia dell’impero britannico dal 1814 al 1964 – si intrecciano con un presente dinamico e internazionale.
Dal 2004 con le isole Gozo e Comino fa parte dell’Unione Europea, la capitale La Valletta è patrimonio mondiale dell’Unesco e insieme alle vicine città di Birgu, Bormla e Isla (pittoreschi porti turistici dove ormeggiano luzzi e panfili), forma uno scrigno di maestosi palazzi e di chiese barocche, di fortezze medioevali, di siti archeologici, di musei e di armerie navali che fino al 31 maggio ospiteranno le opere d’arte site specific proposte da nove padiglioni nazionali: Austria, Cina, Francia, Germania, Italia, Polonia, Serbia, Spagna, Ucraina, oltre a Malta e Sicilia. Il tema lanciato dalla direttrice artistica Sofia Baldi Pighi per il padiglione principale, in varie sedi del centro storico, è l’Insulaphilia, con tutto quanto ne deriva, dal Mare Nostrum come corpo politico, al contropotere della pirateria; dalla decolonizzazione dell’isola, al suo essere luogo di relazioni e di migrazioni, fino a una sorta di Matriarchivio della performance femminile nel Mediterraneo.
Ospitare l’arte del presente nei monumenti del passato aiuta a riflettere sull’importanza della memoria, sulle radici identitarie di una civiltà forse in via di estinzione e invita a immaginare un futuro a misura d’uomo e in armonia con la natura. Genera, dunque, un corto circuito vedere opere d’arte di oggi allestite nel Palazzo dell’Inquisitore a Birgu, dove operò dal 1561 al 1798. Ad esempio, il Terzo Paradiso. Rinascita di Michelangelo Pistoletto con farina di chicchi di grano antico è posto sul pavimento dell’anticamera dove si stava in attesa della sentenza; la scultura aerea Ingenuity della valdostana Chicco Margaroli, realizzata con 27 vesciche di vitello, stabilizzate con erbe alpine ad alto valore antibatterico e sovrapposizioni pittoriche, è collocata nella cella sotterranea dove nel 1672 fu rinchiusa Catherina Dimech, una prostituta condannata per stregoneria a quattro anni di digiuno a pane e acqua. Mentre il documentario Nobilis Golden Moon è una struggente intervista a Chiara Vigo, sacerdotessa del bisso, sull’importanza dell’acqua tra scienza e magia. Girato da Mariagrazia Pontorno in Sardegna nell’estate del 2020, tra due lune piene e due pandemie, il video mostra come si ricava una seta di colore dorato dalla bava della Pinna Nobilis; questo sapere femminile, biblico ed esoterico, si tramanda da nonna a nipote ed è metafora del processo alchemico dell’arte.
All’Armeria di Birgu ci sono installazioni molto impattanti sul tema Can you Sea?, da The Encounter (2011) di Adrian Paci ai Pillars (2024) di Simon Benjamin. Ma è nel Padiglione Italia, ubicato nella Villa Portelli di Kalkara, vicino al planetario Esplora e alla pizzeria Rossopomodoro, dove ci siamo stupiti di più. Curato da Francesca Guerisoli e Nicolas Martino e realizzato dalla Fondazione La Rocca di Pescara con Heritage Malta, presenta Informal Inclusion, doppia installazione ambientale di Eugenio Tibaldi. In continuità con la ricerca che lo contraddistingue, l’artista piemontese, classe 1977, parte dal concetto di margine e di migrazione per denunciare – novello tribunale delle coscienze contemporanee – lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Lo fa in modo poetico attraverso due ambienti, uno immersivo ed esperienziale, dove nel buio giacciono venti storie dimenticate nei depositi dei musei di Malta, sono oggetti antichi illuminati solo dai bagliori di altrettanti smartphone che, squillando, riproducono i cinguettii di venti uccelli migratori. Il secondo ambiente, in piena luce, svela perché squillano i telefoni. A ogni volatile – disegnato e incorniciato dall’artista – corrisponde il numero di telefono di chi, per pochi euro all’ora, cerca lavoro, oppure offre piacere. Sono richieste reali, individuate sui muri, nei parchi, sui guardrail, nei bagni pubblici di città italiane; sono le prime porte di ingresso di un migrante nelle ricche società occidentali.