WALTER ALBINI, L’EPIFANIA DELLO STILISTA
Impeccabile come sempre, Paolo Rinaldi, che fu suo inseparabile amico, si aggira fra le decine di manichini vestiti Walter Albini e decreta: «Questo è un lavoro straordinario». La prima mostra che un museo italiano, gli spazi metafisici della Fondazione Museo del Tessuto di Prato, dedica al primo “stilista” italiano così codificato è straordinaria innanzitutto perché assolutamente necessaria. “Walter Albini. Il talento, lo stilista”, appunto, è frutto di un lavoro durato almeno due anni e condotto con una pazienza che rasenta la devozione da Daniela Degl’Innocenti ed Enrica Morini per ricostruire la vita, il lavoro e la mente di Albini, figura che fra gli anni 60 e l’inizio degli 80 ha profondamente inciso sui sistemi di creazione, produzione e comunicazione della moda italiana, ma il cui successivo oblio è ancora un intricato dilemma. Un lavoro iniziato dunque ben prima che il fondo Bidayat nel maggio scorso rilevasse il marchio, per ridargli vita. E anche se non ci sono stati contatti con la nuova proprietà, quest’ultima non potrà non guardare alla mostra di Prato con gratitudine.
Per addentrarsi nell’universo Albini ci sono abiti, gioielli, accessori, disegni, tessuti, press release delle sue collezioni, fotografie private, oggetti personali. La ricchezza e la multiformità della sua creatività sono a tratti disorientanti. Eppure, se ne ha già sentore in una foto che cattura lo sguardo inquieto di quel ragazzo, il cui vero nome era Gualtiero Angelo, dai tratti pasoliniani e romantici, nato nel 1941 nel cuore tessile di Busto Arsizio, che nel 1956 è l’unico maschio a frequentare l’Istituto d’Arte, Disegno e Moda di Torino. La qualità dei suoi disegni, il gusto del colore, la sicurezza del tratto (il suo ritratto di anatre sembra un Dürer) lo fanno iniziare da illustratore per riviste di abbigliamento mamma e bimbo, ma il suo debordante talento lo conduce presto a collaborare con Krizia, fra i big del tempo. L’Italia della metà degli anni 60 è ideale per la sua visione curiosa e sperimentale, e la sua propensione all’inedito lo porta a collaborare con diversi marchi allo stesso tempo. Ecco l’epifania dello “stilista” contemporaneo, come Vogue, nella penna di Anna Piaggi che diventerà sua mentore, definisce Albini nel 1967.
Al tempo il fulcro della moda italiana è ancora a Firenze, ma Pitti langue: la sua formula collettiva è ormaifané , e quella di Milano, che concede più spazio e visibilità ai singoli creativi, incombe. Albini vive di intuizioni, e anche quella di voler scommettere su Milano è giusta: sarà lì che svilupperà i suoi marchi, la prima liW.A. e la seconda, Misterfox, grazie a un’altra grandiosa intuizione, cioè il successo di una inedita e stretta collaborazione con le aziende produttrici, tessili in primis (che caratterizzerà anche l’inizio dell’impresa di Giorgio Armani e Sergio Galeotti, partner di Marco Rivetti). Albini è considerato a ragione fondatore del madeinItalypercomeoggièconsiderato proprio per questa sua vicinanza al mondo delle imprese: con le sue visioni e indicazioni creative orientò l’evoluzione stilistica e tecnica di molte aziende manifatturiere della moda italiana. Un caso per tutti, Etro: il successo delle sue stampe, che ne ha sostenuto poi la crescita in marchio, deve molto ad Albini. Lo stesso concetto visivo di quell’Italian Lifestyle che affolla oggi le strategie di comunicazione secondo Maria Luisa Frisa nasce con la campagna della collezione per l’AI 1978-9 scattata da Maria Vittoria Backhaus: in un sofisticato interno, con arredi anch’essi disegnati da Albini, una donna afferra degli spaghetti da un piatto.
Il talento per il futuro dello stilista lo porta a organizzare sfilateevento in location inconsuete e spettacolari come il Blakes Hotel di Londra, fra i tavolini del Florian di Venezia e in un vivaio di Roma dove fa spruzzare essenza di rosa sugli ospiti; a disegnare una Madonna fra i fiori, un santino ma truccatissimo, su una blusa di seta ben prima che l’iconografia cattolica diventasse materiale fashion; ad affrancare lino e cotone dalla biancheria per farne abiti ricercati, a esaltare la versatilità delle fibre sintetiche, a presentare una collezione con un fashion film nel 1977 (in realtà lo stesso anno Jacques Bascher, compagno di Karl Lagerfeld, gira per Fendi “Histoire d’Eau”) ma certo prima che il genere appassionasse anche i registi premio Oscar. Adora e capisce il potenziale di Chanel negli anni in cui l’atelier di Rue Cambon è visto come un museo delle cere. Soprattutto, Albini aveva capito che la moda è cambiamento continuo, che lo stilista ne è artefice e protagonista. Eppure. I suoi ultimi anni - morirà a 42 nel 1983 - sono stati i più difficili da comprendere, ricostruire, raccontare. Albini fatica ad abbracciare le logiche commerciali del sistema di cui è stato il Big Bang, la sua inquietudine gli fa firmare e rescindere un turbinio di contratti con imprenditori che ne colgono il potenziale ma ne soffrono la personalità. «Non è vero che c’è sempre da scoprire», decreta Vasco Rossi in La noia nel 1982. «Facevo parte degli apocalittici – risponde idealmente Albini -. Poi ho capito che c’è sempre un domani”. Anche quello in cui venire finalmente riscoperti.