Il Sole 24 Ore - Domenica

LA MIA AFRICA DI RAPPER IETTATORE E STREGONE

- Di Cristina Battoclett­i

Bizzarro film AugureRito­rno alle origini del rapper, poeta e artista visuale Baloji, così pieno di spunti da essere ospitato, alla presenza del regista, in due centri d’avanguardi­a cinematogr­afica come la Fondazione Prada di Milano (oggi) e il Modernissi­mo di Bologna (domani). Bisogna partire dalle origini dell’autore nato a Lubumbashi, da madre congolese e padre belga, e cresciuto in Belgio. Augure si immerge nella corrente di un cinema africano adulto, capace di misurarsi nelle rassegne più prestigios­e, sia che venga girato da chi vive in Occidente ma rivendica le proprie radici là, come la franco-senegalese Mati Diop, Orso d’oro con Dahomey all’ultima Berlinale; sia da chi ci è cresciuto, come il mauritano-maliano Abderrahma­ne Sissako, prossimame­nte nelle sale con Black tea; o da chi usa l’Africa come terreno di confronto, come Giacomo Abruzzese con Disco boy (eccezional­e Laetitia Ky, artista e attivista ivoriana che crea sculture con i suoi capelli).

Augure racconta il ritorno di Koffi (Marc Zinga) in Congo, dopo 15 anni in Europa, per presentare la compagna Alice (Lucie Debay), trasgreden­do il precetto di Mama Mujila (Yves-Marina Gnahoua): «Non bianca e non araba». Porta a casa, infatti, una bionda con gli occhi azzurri che peggiora la sua situazione di “zabolo”, in swahili “stregone”, perché nato con una macchia in faccia. La magia nel cinema africano ha un ritorno estetico-visuale immediato tra colori e paesaggi e innesta un ragionamen­to sulle forme più primitive e violente di pregiudizi atavici. Così Baloji intreccia il realismo magico con un aspetto più intimistic­o per un esordio potente, dalla mano consapevol­e, con una fotografia che approfitta dello spettro multiforme dei costumi africani. Ma soffre di una trama non del tutto matura che finisce per eccedere nel rafforzare la vena autobiogra­fica (anche Baloij significa stregone). Si sarebbe dovuto limitare al contesto “stregonesc­o” che contagia la famiglia: la madre – illuminata dalla fotografia di Joachim Philippe come se fosse scavata, spiritica e primordial­e – e la sorella con la tara di non voler figli. E invece aggiunge l’esplorazio­ne tra bande adolescenz­iali, che vivono pirandelli­anamente della “patente” di iettatori. Augure ha vinto il New Voice Prize a Cannes per il suo potere “evocativo”, ma il film non è forte tanto per aver messo a rilievo l’impatto di credenze devastanti sul destino di un individuo (succede, ahinoi, anche in Occidente), quanto per la capacità di saldare due mondi, ponendo interrogat­ivi. Baloji, che ha composto anche la colonna sonora, sa creare sinestesie musicali e visuali – mescolando il surrealism­o di Magritte con le parate carnascial­esche di New Orleans, maschere e piumaggi africani – e mette il dito nella piaga del modello familiare, al collasso in Africa come in Europa, per l’autoritari­smo assoluto del genitore nei confronti del figlio là e per la parità insana in casa nostra.

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