ASSOLUTA DEMOLITRICE DEL CANONE TRAGICO
Romeo Castellucci guida un’eccezionale Isabelle Huppert in «Bérénice» di Racine, dimostrando la fragilità della parola e la volontà di sovvertire la scena contemporanea con l’irrapresentabilità di un dramma ridotto all’essenziale
Riprendendo l’osservazione di un suo contemporaneo André Gide notava come i personaggi di Racine non possano continuare a vivere una volta chiuso il sipario, contrariamente a quelli di Shakespeare che ritroviamo tra noi anche fuori dalla sala dello spettacolo, ma, sottolineava «mi piace questa limitazione esatta di non sconfinare dal quadro, questa precisione di contorni». Ora Romeo Castellucci nel suo allestimento di Bérénice del grande drammaturgo francese, (presentato dal 4 all’8 aprile alla Triennale di Milano che ne è coproduttrice), appare molto vicino alla dimensione descritta. E, sorprendentemente, due universi tanto distanti come quello del regista cesenate e quello dell’autore seicentesco sembrano sovrapporsi proprio su questa prospettiva.
Del resto Castellucci è stato ed è il più drastico demolitore della scena contemporanea, e si è sempre collocato all’opposto di un teatro di rappresentazione, di psicologia, di umanità strettamente intesa, puntando ai cortocircuiti della percezione sensoriale e intellettiva. Ma è altrettanto evidente quanto questo testo, dal canto suo, smonti pezzo per pezzo l’idea stessa di tragedia. La vicenda narra della sovrana di Palestina legata a Tito da una passione profonda. Nel momento in cui il suo amato sale sul trono, dopo la morte del padre Vespasiano, ella attende il coronamento della loro unione con le nozze, mentre il senato ricorda al nuovo imperatore che sul massimo scranno di Roma non potrà mai sedere una regina, tantomeno straniera. Tito deve allora rinunciare a Berenice, non tanto per sete di potere ma perché investito di una responsabilità verso tutto il popolo e verso lo Stato. Ma cosa accade nella folgorante scrittura raciniana: l’uomo fugge dal confronto con l’amata, non sa come comunicarle questa necessità, e quando la incontra, emette solo frasi frammentarie. Accanto a loro c’è poi Antioco, deciso a svelare i suoi sentimenti alla donna soltanto quando anche lui immagina che il matrimonio sia imminente, dopo aver taciuto a lungo per non turbare l’amore tra lei e il suo migliore amico. Così è in Racine (anche in questo caso all’opposto di Shakespeare): i profili di tutti i personaggi sono adamantini, le loro azioni sono sempre sulla traiettoria di un’etica inflessibile. Ma ciò non diminuisce né la sofferenza di tutti loro né l’impossibilità di trovare una soluzione alle dolorose strettoie dell’esistenza. E, di conseguenza, la parola diventa inadeguata ad esprimere gli stati d’animo, si arena in una serie di dialoghi irrisolti, e quest’opera si mostra come la più lancinante radiografia dell’impotenza verbale, fino alla necessità del silenzio. Castellucci compie anche questa volta un’operazione radicale, lasciando in palcoscenico la sola Berenice, in questo caso Isabelle Huppert, a profferire le sue battute senza né interlocutori né risposte, con un velario che la distanzia ulteriormente da noi, relegandola in uno spazio assoluto, chiuso in se stesso, né di realtà né di finzione, senza verità da dimostrare o catarsi da attendere. Ma vedremo anche riti di incoronazione esoterici e sacrificali, esclusivamente maschili, l’esito dei quali è il martirio, non certo la gloria o il dominio, cose alle quali Tito non ha mai aspirato. E Huppert fa del limpido (e intraducibile) alessandrino raciniano una linea fluida e continua, ma trattenuta, astratta, aprendo qua e là, con minimi accenni, abissi di senso mai scandagliati in senso patetico, sostenuta dal tessuto musicale tellurico di Scott Gibbons.
Nel finale la protagonista rinuncia al suicidio e decide di allontanarsi lasciando vivere e regnare il suo uomo, del quale ha compreso lo strazio e il vero affetto. Ed è Roland Barthes a notare come questa chiusura distrugga il canone tragico, facendo esplodere tutta la costruzione drammaturgica. Allora Berenice/Isabelle accasciata al suolo balbetterà le sue ultime battute, incapace di dar loro una forma compiuta, dimostrando la fragilità della parola nella vita e soprattutto sulla scena, nonchè il definitivo arenarsi del rappresentabile. Non a caso la costruzione visiva di Castellucci raggiunge il massimo dell’essenzialità, con qualche concessione più apertamente figurativa. E alla fine forse anche il pubblico dovrebbe restare in silenzio, ma è naturale che si lasci andare, come accade, a fragorose ovazioni per quell’attrice incommensurabile e per quella creazione di sconvolgente potenza.
TITO NON PUò SPOSARLA, MA FUGGE IL CONFRONTO CON L’AMATA, CHE SI ACCASCIA AL SUOLO BALBETTANDO
Bérénice
Jean Racine
Con Isabelle Huppert
Regia di Romeo Castellucci Visto a Milano, Triennale Da settembre in tournée