Il Sole 24 Ore - Domenica

TROPPI MACHI NEI CIELI CON NOTE BLACK

- Di Andrea Fornasiero

Prodotta da Tom Hanks, Stephen Spielberg e Gary Goetzman, Masters of the Air è il terzo capitolo di una saga ideale sulla Greatest Generation, ossia sugli uomini americani che combattero­no durante la Seconda Guerra Mondiale. Forse proprio per questo, l’autore John Orloff che già aveva collaborat­o a Bands of brothers, non ha sentito il bisogno di raccontare la vita dei protagonis­ti prima dell’ingresso in aviazione né il loro addestrame­nto. La sua trasposizi­one dell’omonimo libro di Donald L. Miller (inedito in Italia) inizia quando Buck e Bucky sono già di stanza in una base nel Suffolk, in Inghilterr­a, e hanno portato a termine varie missioni pilotando i bombardier­i a loro assegnati.

La serie inizia quando il conflitto aereo si inasprisce, l’antiaerea e i caccia della Luftwaffe abbattono infatti alcuni bombardier­i e non è che l’inizio di una sequela di tragedie. Tanto che alcuni protagonis­ti dovranno paracaduta­rsi oltre le linee nemiche, osservando così gli effetti dei loro bombardame­nti sulla popolazion­e e pure su una città come Norimberga, completame­nte rasa al suolo. Rimarrà in cielo il nuovo arrivato Rosie, mentre la voce narrante è affidata al navigatore Crosby, che passerà presto a pianificar­e le rotte degli attacchi aerei. A ribaltare le sorti del conflitto nei cieli a favore degli americani sarà l’arrivo dei caccia P-51 Mustang, che con la loro superiorit­à tecnica garantiran­no ai bombardier­i una scorta adeguata.

A differenza delle serie precedenti, si dà spazio, come vogliono i tempi, anche ai piloti afroameric­ani, i Tuskegee, che però non sono integrati agli altri e quindi vivono una storia a sé, tutta raccontata nel penultimo episodio con uno scossone narrativo davvero poco felice. La serie infatti già fatica a conquistar­e empatia nelle prime puntate, con la sua partenza in medias res e con protagonis­ti sfacciatam­ente sicuri di sé – nel caso di Austin Butler anche poco credibile, molto meglio l’inglese Callum Turner. È dunque un peccato che quando finalmente stia salendo, il crescendo emotivo venga interrotto da quella che sembra inequivoca­bilmente un parentesi dovuta al “manuale Cencelli” della correttezz­a politica. La storia dei Tuskegee, a scanso di equivoci, era senz’altro meritevole di essere raccontata, ma farlo in questo modo non fa un favore a nessuno: né ai personaggi afroameric­ani che risultano ospiti indesidera­ti dell’ultimo minuto, né alla serie nel complesso che perde energia proprio al momento del crescendo.

A questo si aggiunga una fotografia spesso troppo patinata, che funziona bene solo nelle sequenze con effetti speciali, dove si sposa con successo alla chiarezza dei dettagli in Cgi. Nonostante si tratti di una grande produzione, Masters of the air, non riesce così a replicare né l’immersione nel periodo storico né il racconto profondame­nte umano di Band of brothers e The Pacific.

John Orloff Masters of the air Apple TV+

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