MARIO PRAZ E QUELLE EMOZIONI OLTRE IL PARAVENTO
La riapertura della Casa di Mario Praz, chiusa ormai da alcuni anni, non verrà soltanto ad appagare il ricercatore di cose belle, stanco della sontuosità delle tante dimore del patriziato romano e curioso d’ambienti di una raffinatezza più dimessa e borghese, no, a Palazzo Primoli, dove il grande critico e saggista si trasferì dopo essere lungamente vissuto al Palazzo Ricci di via Giulia, avranno soddisfazione anche quanti provano una viva curiosità per gli uomini e per la loro psicologia. Giacché l’affermazione di Walter Pater secondo la quale ogni abitazione costituisce un’espansione dell’anima, “gradual expansion of the soul”, in pochi altri luoghi, come in questo, può trovare la sua conferma. Praz giunse nell’edificio di via Zanardelli nel 1969: sul pianerottolo, in cima alla scala, c’era allora un busto di Montaigne, al pian terreno le vestigia napoleoniche legate alla famiglia Primoli, ch’era imparentata coi Napoleone per via di Giuseppina Paolina Bonaparte, sposa del conte Pietro e discendente da uno dei fratelli dell’Imperatore, Luciano.
«Per me» – confessava – «cultore dello stile Impero, la casa è più congeniale dell’antico palazzo di via Giulia, e non solo per l’associazione ai Bonaparte, ma anche per via di Montaigne, principe dei saggisti».
Della casa è stato più volte notata la squisita qualità degli arredi, così come la passione del suo proprietario per le cere, le vanitas, le case di bambole, le composizioni di conchiglie e altri oggetti speciosi ai quali la mescolanza di capziosità e bizzarria valse quell’aggettivo di “prazzesco” che coniò per loro il grande critico americano Edmund Wilson. Con la stessa insistenza s’è sottolineato come la collezione non contenga nessun capolavoro, ma piuttosto tanti quadri deliziosi e minori, dove in genere sembra più a lungo indugiare la fragranza di un’epoca e che sanno ispirare un’intimità maggiore che non gli old Masters. Pittura domestica, conversation pieces, acquarelli d’interni, l’Impero, sì, ma temperato dal Biedermeier: il gusto della Malmaison o degli interni del Palazzo Reale di Napoli, teatro dell’idillio tra Gioacchino Murat e la moglie Carolina. Lo sguardo che si posa su questi oggetti ne La casa della vita, il libro che Praz concepì sul proprio appartamento, prima di Palazzo Ricci e poi, come si diceva, di Palazzo Primoli, è di un lirismo soffuso: un busto, una culla, uno scrittoio a volte gli evocano una memoria privata, a volte una culturale; più spesso l’una e l’altra s’intrecciano. A proposito d’uno dei suoi ritratti appesi nella camera della figlia Lucia, Figura femminile in piedi accanto alla finestra di JulesÉmile Saintin, scrive: «La scena è misteriosa e può sembrare anche cupa. Una signora vestita di raso nero-viola…» e a questo abbrivio, quasi di racconto, fa seguire una divagazione sul pittore che sta a metà fra il saggio e la fantasticheria, e così fa anche in
Fiori sotto campana, Case di bambole, Un ritratto di Ugo Foscolo, Letizia, tutti ispirati ad altrettanti pezzi della sua raccolta.
Questo modo di procedere di ambiente un ambiente, che può ricordare quello adottato da Xavier de Maistre in Voyage autour de ma chambre, oltre a sottrarre La casa della vita alla petulanza ciarliera di un’opera per certi versi simile come La Maison d’un artiste d’Edmond de Goncourt, offre una chiave per muoversi nel dedalo della collezione.
Collezione di cose a tal punto intimamente legate le une alle altre da dar luogo, in certe occasioni, a stravaganti effetti di mise en abyme, come in quel dipinto all’ingresso dove sembra quasi riflettersi l’arredamento della stanza oppure nel lampadario a foggia di mongolfiera di P.P. Thomire in sala da pranzo, echeggiato da uno specchio e da un dipinto, ciascuno raffigurante un episodio saliente nella storia del pallone aerostatico.
Echi, raffronti, memorie: in una lettera spedita da Vernon Lee al giovane Praz, la scrittrice inglese lo esortava a vivere di vita concreta, come recitava la nota poesia di Gozzano, finendo con l’ammonirlo: «lei è tutto fatto di letteratura». Ma all’esistenza rumorosa Praz ne preferiva una più umbratile, come ammise una volta, dicendo d’appartenere a quella specie d’uomini che amano l’affaccio sul cortile interno piuttosto che quello sulla pubblica strada. L’arte può offrire un surrogato d’esistenza, più ovattata e lontana, come quella di un ospite che si fermasse sulla soglia a guardare una scena di gioia o di dolore familiare alla quale, tuttavia, non può partecipare che per metà. In un saggio sulla sua vecchia amica Lee, Praz raccontava come la scrittrice, sebbene sentisse profondamente la musica, avesse bisogno di udirla da un’altra stanza, dove le emozioni giungevano attutite. Anche Praz sentì questa stessa necessità d’affinarle e di raffreddarle, esprimendole indirettamente attraverso gli oggetti della casa, le loro storie e i sottili rapporti che andavano instaurando gli uni con gli altri. Quasi che la sua anima si rifugiasse dietro un paravento. Ma non si intitolava appunto la sua più personale antologia: Voce dietro la scena?