PINO PASCALI BRILLA NELLA «SUA» BIENNALE
Alla Fondazione Prada è «riattivata» la sala di Venezia del ’68: presentate le opere esposte allora, nella stessa posizione, le tele estroflesse con le voluttuose labbra di Billie Holiday, il busto di «Maternità» e l’evocazione del Colosseo
«Io son come un serpente/ogni anno cambio pelle/la mia pelle non la butto/ ma con essa faccio tutto/Quel che ho fatto di recente/ già da tempo mi repelle». In questa filastrocca (in realtà una vera dichiarazione di poetica consegnataci però, come piaceva a lui, in forma ironica) Pino Pascali condensa l’essenza del suo lavoro di artista eclettico e inafferrabile, sempre diverso da sé eppure sempre riconoscibile. Difficile dare ordine a una materia così composita senza tradire lo spirito libero dell’artista: ci è riuscito Mark Godfrey, curatore della retrospettiva di Fondazione Prada, che ha realizzato una mostra esemplare, fondata su un impianto scientifico robusto e illuminato da una vera novità di sguardo, ricca di opere miliari e – tutt’altro che secondario – anche spettacolare.
1935 e 1968 sono le date estreme di Pascali: nato a Bari, formato dal 1955 all’Accademia di Belle Arti di Roma sottolaguidadiunmaestroapertoalnuovo come Toti Scialoja, a Roma Pascali muore, in sella a una moto, a 32 anni, mentre è in corso la Biennale di Venezia dove ha la sala personale: la consacrazione tanto attesa per lui che aveva esordito, con successo, come scenografo e pubblicitario per la televisione ma che poi si era impegnato sempre più nell’arte. Alla Biennale Pascali ricevette, postumo, il Gran Premio.
Quella sala, con le quattro personali più importanti che l’avevano preceduta, è stata “riattivata” da Mark Godfrey nel Podium di Fondazione Prada, con una scelta che da un lato gli consente di scandire senza forzature una produzione tanto variegata e dall’altro gli permette di evidenziare la precoce consapevolezza di Pascali (non a caso, un pubblicitario) del peso che, nella ricezione di una mostra, avevano la pratica espositiva e la sua documentazione fotografica. Ed è così che irrompe lo spettacolo, proprio com’era stato programmato dall’artista: negli ambienti delle sue mostre, ricostruiti nelle stesse dimensioni degli spazi originali, sono presentate le opere esposte allora, nell’esatta disposizione di allora. Ecco le tele estroflesse con le enormi, voluttuose e rossissime labbra di Billie Holiday e il busto di Maternità (il ventre gonfiato da un palloncino posto dietro la tela dipinta a smalto), e l’evocazione del Colosseo, realizzato con un tessuto di spugna dipinto e teso su centine di legno, tutte esposte nel 1965, nella sua prima personale, alla galleria La Tartaruga di Plinio De Martiis a Roma. Solo un anno dopo, da Sperone a Torino, le armi: vere armi? Ready made? Per nulla. In realtà assemblaggi di tubi di scarto, ruote, legni, componenti di auto, del tutto innocui ma da lui composti nelle forme di armi micidiali, sullo sfondo del falso siluro Colomba della pace (ancora il suo umorismo, qui decisamente noir): un’opera, purtroppo, sinistramente attuale.
Di lì a poco, nella galleria L’Attico di Fabio Sargentini a Roma, un’altra geniale piroetta, con le «false sculture» realizzate – da aeromodellista qual era – con tessuto teso su centine: opere leggerissime ma evocative di animali poderosi (perfino un dinosauro: bonario però, “a riposo”), del tutto spaesanti per la materia imprevista di cui sono fatte. In realtà, una riflessione sofisticata sugli statuti della scultura, da lui porta però con la consueta levità attraverso questi oggetti