IL PROFETA SGHEMBO DELLA GENERAZIONE X
Moriva tragicamente 30 anni fa il leader dei Nirvana, il gruppo grunge di Seattle che seppe comunicare la disperazione giovanile di quegli anni. Torna la biografia di Charles Cross, «Più pesante del cielo», con nuovi capitoli
La tv accesa per ore su Mtv per intercettare il video di Smells Like Teen Spirit. La camicia da boscaiolo di tre taglie in più, la cassetta dell’Unplugged in New York, la T-shirt con la copertina di Nevermind. Le lacrime versate l’8 aprile 1994, quando venne diffusa la notizia che Kurt Cobain, 27 anni, leader dei Nirvana, all’epoca il gruppo rock più famoso del mondo, si era suicidato con un colpo di fucile tre giorni prima.
È altamente probabile – per chi è nato nel mondo occidentale tra la metà degli anni 60 e il 1980 – conservare nella memoria un personale e malinconico ricordo del cantautore che ha fatto la storia del grunge, il biondino arrivato da Seattle con un carico di malessere e verità che lo fecero assurgere a ruolo di profeta un po’ sghembo di una generazione altrettanto sghemba (la X, adolescenti cresciuti con la caduta del Muro di Berlino e scaraventati nell’età adulta con il crollo delle Torri Gemelle). E dunque trent’anni dopo quella fucilata, e dopo decine di libri, documentari, migliaia di articoli, tesi fantasiose sulla sua morte, pettegolezzi più o meno feroci sulla vedova Courtney Love, cover, omaggi, rimasterizzazioni e chi più ne ha più ne metta, ha ancora senso parlare di Kurt Donald Cobain? Forse no, ammettiamolo, e sarebbe lui il primo a mandarci a quel paese per questi sprofondi di nostalgia da calendario. Ma la parabola di Cobain – si perdoni la similitudine azzardata – è come un vangelo che si adatta ai tempi e insegna sempre qualcosa. Così ad esempio torna nelle librerie Più pesante del cielo (il Saggiatore), biografia enciclopedica uscita originariamente nel 2001, arricchita da una nuova prefazione dell’autore
– il giornalista di Seattle Charles R. Cross – che, tra le altre cose, mette in evidenza la natura “analogica” dell’arte di Cobain, in contrasto con le star dell’era del digitale e dello streaming. Non si tratta (solo) del classico luogo comune sul fatto che “una volta si faceva la gavetta, mentre adesso basta caricare un video su YouTube”, ma di ispirazione: oggi chiunque si avvicini alla musica, ha a disposizione un catalogo musicale praticamente sconfinato a cui attingere.
Kurt, nato e cresciuto ad Aberdeen (cittadina sulla costa dello stato di Washington popolata da «ipocritissimi buzzurri masticatori di tabacco ammazzacervi sterminafinocchi boscaioli», come scrisse nei suoi Diari, Mondadori, 2002) ebbe al contrario una formazione musicale piuttosto limitata: amava i Beatles, innanzitutto e sopra ogni cosa, una passione che gli era stata trasmessa dai genitori (papà meccanico e mamma cameriera). Ma Spotify non esisteva, e lui – tutt’altro che ricco – riuscì a comprarsi inizialmente solo quattro album, ovvero A Hard Day’s Night, Beatles ’65, Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band e Meet the Beatles!: proprio ascoltando quest’ultimo per un giorno intero, compose About a girl, canzone “pop” inclusa in Bleach, il disco d’esordio dei Nirvana uscito nel 1989. Poi certo ci furono la rabbia punk e le distorsioni metal, i Pixies («I Nirvana non hanno inventato nulla, hanno semplicemente copiato i Pixies», parola di Cobain), David Bowie, i Clash, i Ramones, i Buzzcocks, i Melvins del mentore Roger “Buzz” Osborne e i misconosciuti scozzesi Vaselines: un frullato di generi, di vocazioni e di stili che nessun algoritmo avrebbe mai potuto elaborare e che si impastò nella testa di un ragazzino fragile, traumatizzato dal divorzio dei genitori, senza soldi e schiavo dell’eroina, per dare vita – incredibilmente, sì – a tre dischi che hanno segnato la storia della musica. «Tenete presente l’epoca: era la fine degli anni 80. L’America, l’idea di un Paese democratico e pieno di speranza, era stata smantellata dall’Irangate, dall’Aids e dalle amministrazioni Reagan e Bush senior – ha detto Michael Stipe dei R.E.M. nel 2014, alla cerimonia per l’introduzione dei Nirvana nella Rock and Roll Hall of Fame –. I Nirvana con la loro musica, con il loro atteggiamento e con la loro voce, riconoscendo le macchinazioni politiche e i movimenti meschini che ci avevano fatto arretrare culturalmente, hanno fatto esplodere tutto ciò con una rabbia cristallina e nucleare … Loro dicevano la verità, e la gente li ascoltava».
E non era mica poco, se pensiamo che il World Wide Web era agli albori e nessuno poteva permettersi di chiudersi nella propria “cameretta” per creare musica da diffondere urbi et orbi sui social (alla Billie Eilish, per intenderci). Dunque, più che per il tragico epilogo, meglio ricordare Cobain per la sua sconfinata capacità di farsi ascoltare, dote che si espresse in molte canzoni e nei modi più svariati: come quella volta che portò il nastro di Love Buzz in una stazione radiofonica locale, poi uscì, aspettò un paio di ore, andò in una cabina telefonica, con un quarto di dollaro chiamò il dj e, camuffando la propria voce, gli chiese di mettere quel nuovo fortissimo gruppo di Seattle: i Nirvana
Charles R. Cross
Più pesante del cielo
Vita di Kurt Cobain Traduzione Giancarlo Carlotti il Saggiatore, pagg. 464, € 26