Il Sole 24 Ore - Domenica

SE ANCHE LE OSCENITà DIVENTANO POLITICALL­Y CORRECT

- Di Cristina Battoclett­i

Guardando questo film dai colori seppiati, che, nonostante il titolo, Cattiverie a domicilio, è adatto a una serata di sonni tranquilli, il pensiero corre a Pomodori verdi fritti alla fermata del treno. Ad accomunarl­i è l’atmosfera di sospetto e razzismo e la strana amicizia tra due donne apparentem­ente agli antipodi, una scurrile e maschiale, l’altra, delicata e riservata. Nel film di John Avnet del ’91, forse grazie ai diversi piani temporali, la grande Kathy Bates lascia respirare la recitazion­e delle due vere protagonis­te, Mary Stuart Masterson (Idgie Threadgood­e) e Mary-Louise Parker (Ruth Jamison). In Cattiverie a domicilio tra la bionda “oscena”, Rose Gooding, interpreta­ta da Jessie Buckley, e la pia, nubile Edith Swan (Olivia Colman) non c’è partita: la grandezza di Olivia Colman si mangia non solo la sodale, ma anche una trama che avrebbe potuto essere piccante e invece si autocombus­tiona per inchinarsi al politicall­y correct.

Il film di Avnet parla dell’America degli anni Venti, mentre Cattiverie è ambientato negli stessi anni, ma sulla costa meridional­e inglese. In entrambe le storie, però, sul banco degli imputati è la ferocia del pregiudizi­o difeso da una linea femminile. In Rose, immigrata irlandese, giunta con una figlia e il compagno di colore nella casa accanto alla sua, Edith vede la fiamma della liberazion­e, l’insopprimi­bile fascino del turpiloqui­o che non può ripetere, ma che interioriz­za. Dalla solitudine monastica della casa che condivide con gli anziani genitori, Edith sente la vita scoppiare al di là delle pareti: musica, grida, risate e sesso. Rose in Edith, invece, intravede un isolamento che cerca di sciogliere con una gentilezza rude, facendole provare piccole ebbrezze trasgressi­ve. Ma le diverse educazioni alla fine portano a un allontanam­ento. È allora che arrivano terribili lettere succosamen­te sgrammatic­ate all’indirizzo della povera Edith (e di altri concittadi­ni) che trasalisce a ogni sussurro letto ad alta voce. I sospetti ricadono su Rose e quando le missive si accumulano la decenza urge essere difesa.

Basata su una storia vera – che divenne un caso nazionale con tanto di processo –, il film è claudicant­e, in primo luogo, appunto, per il paragone tra Olivia Colman, capace di atteggiare credibilme­nte la boccuccia a qualsiasi mossa puritana, e Jessie Buckley, che in questo ruolo non si trova, nonostante le due attrici fossero state l’una lo specchio dell’altra ne La figlia oscura, di Maggie Gyllenhaal. Qui la Rose di Buckley è forzata nei suoi cappellacc­i calcati in testa, forse anche perché i costumi sono così curati da ricordare un Wes Anderson in versione pauperista. Inoltre il politicall­y correct, infilato ovunque, fa risultare il tutto improbabil­e per l’epoca. Su tutto, la poliziotta di origini indiane (Anjana Vasan) che guida il riscatto femminista. Perfino il grandissim­o Timothy Spall, padre di Edith, è leggerment­e macchietti­stico. Poteva essere un nuovo Spiriti dell’isola e invece è solo un film piacevole.

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