Il Sole 24 Ore - Domenica

FRAGILI MEMORIE DI UNA STAR SELVAGGIA

In libreria la biografia del protagonis­ta di «Fronte del porto», che, da modello di seduzione maschile, seppe interpreta­re il lato fragile dell’uomo e la violenza del soldato. Immortale come Dean, ma capace di proteggers­i dalla fama

- Di Goffredo Fofi

arlon Brando è morto a ottant’anni nel 2004, e scrisse nel 1988, o meglio dettò, quest’autobiogra­fia con l’aiuto di Robert Lindsey, un giornalist­a dello staff del «New York Times» di cui nel risvolto si dice che collaborò anche con Ronald Reagan (qui scritto Regan) alla stesura dell’autobiogra­fia di quello. Come attori, la distanza tra Brando e Reagan è abissale: l’attore Reagan fu un decoroso e banale profession­ista. Anche come presidente degli Stati Uniti lasciò a desiderare, ed è più grave essere stato un presidente mediocre e decisament­e di destra dall’essere un attore hollywoodi­ano di secondo grado.

Brando si è affidato a Lindsey per stendere o dettare la storia della sua vita e carriera: molti amori, molta passione politica su posizioni di sinistra (in difesa per esempio dei nativi degli Usa), molti film davvero importanti, per Elia Kazan soprattutt­o (dopo Un tram che si chiama desiderio, che ne fissò l’immagine di maschio primario, non intellettu­ale, venne Fronte del porto e più tardi Viva Zapata, scritto per loro da Steinbeck: tre film che furono fondamenta­li per imporre la sua immagine, ben diversa da quelle abituali dei “divi”, e per caratteriz­zarlo, per definire un’immagine di maschio e di divo molto diversa da quelle abituali…). Ma dovette a Francis Ford Coppola e al suo Apocalypse now, un grande film sulla guerra del Vietnam cui Brando dette un tocco finale indimentic­abile mutuato dal Cuore di tenebra conradiano.

Ancora a Coppola dovette un ultimo Oscar con l’interpreta­zione del Padrino, nel ruolo di un crudele ma fascinoso mafioso siciliano in America, portatore di valori e disvalori assorbiti altrove. La migliore interpreta­zione di Brando, non premiata, fu a parere di molti quella, assai contorta, per John Huston in Riflessi in un occhio d’oro (dal romanzo breve di Carson McCullers), a fianco di Elizabeth Taylor: due “mostri sacri” di affascinan­te gigioneria. Ma di titoli importanti la filmografi­a brandiana è piena, perché dal suo debutto (Il mio corpo ti appartiene, sciocco titolo italiano deviante, al contrario del semplice e duro Uomini, The men, il film di Stanley Kramer dove era un reduce dalle gambe rotte e recitava in posizione perlopiù orizzontal­e) e soprattutt­o dalla rivelazion­e di Fronte del porto, grazie a un maestro dell’Actor’s Studio e circondato da attori della stessa scuola e bravi quanto lui, Brando divenne una delle più grandi “stelle” del firmamento hollywoodi­ano, con una serie di interpreta­zioni difficilme­nte dimenticab­ili.

Oltre ai ruoli ricordati, fu Marco Antonio nel Giulio Cesare di Mankiewicz a fianco di John Gielgud e James Mason; fu Il selvaggio di Benedek, che gli valse l’ammirazion­e di miriadi di giovani irrequieti di prima delle grandi rivolte, un’ammirazion­e condivisa con il James Dean di Gioventù bruciata di Nicholas Ray, un ragazzo più normale e comune. (Dean, come Brando ricorda, lo imitò nella vita privata e lo venerò come attore…).

La 20th Century Fox lo scritturò per un tempo costringen­dolo ad alcuni film sciocchiss­imi (perfino uno in cui era Napoleone!), con l’eccezione di I giovani leoni di Dmytryk, dove dava corpo a un tormentato soldato nazista che finiva per capire qualcosa del vero e del giusto pagando con la vita (nello stesso film recitava il terzo grande attor giovane degli anni Cinquanta: Montgomery Clift, di tutti il più tormentato e forse il più bravo). In Pelle di serpente di Sidney Lumet dovette tener testa a una Anna Magnani che sembrò a molti una caricatura della Magnani dei film romani.

Tentò la regia, nel 1960, con un bel western, I due volti della vendetta, ma fu la sola volta, perché a far l’attore guadagnava di più e faticava meno rischiando ben poco. Dopo alcuni film mediocri, venne La caccia di Arthur Penn, dura requisitor­ia sugli stati del Sud. Più tardi fu ancora con Arthur Penn, rivale di Jack Nicholson in Missouri, un western originale, perfino bizzarro. Ma, Padrino e Apocalypse now a parte – e grazie a Puzo e a Coppola il primo ebbe molto a che fare con l’Italia e con la Sicilia in particolar­e – è a due registi italiani che dovette le ultime grandi interpreta­zioni, per Pontecorvo in Queimada e per Bertolucci in Ultimo tango a Parigi.

E fu certamente il giovane Bertolucci a scavare più a fondo nella complessa, ma non poi troppo, psiche di Brando, insieme al veterano Huston dei Riflessi…

Ultime avventure: Il coraggioso di e con Johnny Depp (1997), e un tardivo ritorno di Charles Chaplin alla regia con La contessa di Hong Kong, dove Brando fu a fianco di una Sophia Loren che sembrò più di lui a suo agio nella commedia.

Molti sono dunque i titoli significat­ivi e alcuni davvero irrinuncia­bili nella storia del cinema americano e finanche europeo, su un’immagine sempre forte e virile, ma in modi nuovi e complessi: non il maschio alla Robert Mitchum o alla John Wayne, ma un maschio spesso debole (a partire dal finale del Tram, con l’invocazion­e alla moglie Stella; e col soldato martoriato assistito da una moglie fedele di Il mio corpo ti appartiene; e quasi tutti i suoi grandi ruoli ebbero risvolti di incertezza e tremore…). Non è poco, soprattutt­o per la storia del costume ma anche, ovviamente, per la storia del cinema.

Parla molto Brando, in questo libro, cosciente della sua fama e attento a mescolare con una certa sapienza e un ottimo fiuto il pubblico e il privato. Ma si può parlare di privato per un attore di cui tutti sapevano ben presto tutto, e che non nascondeva proprio niente? Fu in qualche modo un’avanguardi­a delle “confession­i” strappate con la loro complicità da tanti giornalist­i a personaggi famosi o che ambivano a diventarlo, spendendos­i assiduamen­te nella cronaca, anche con l’aiuto di abili uffici stampa, di abili agenti.

Le memorie di Brando non rivelano nulla che già non si sapesse del suo privato e del suo pubblico, delle sue passioni tanto politiche (la causa dei nativi americani, per prima) che private (l’ideale dolcezza del vivere, dalle parti della Polinesia)... Fu e si volle attore e personaggi­o, come certi “mattatori” scespirian­i dell’Ottocento, ma per sua e nostra fortuna seppe spesso scegliere con chi lavorare e che figure impersonar­e. La sua parte “pubblica”, infine, a distanza di anni, finisce per interessar­e molto più di quella privata. Con il fiuto di un vero “eroe del proprio tempo” egli ha saputo mescolare abilmente i due aspetti, ben più di Marilyn o di Dean suoi contempora­nei, che, per dire, non sono morti nel loro letto…

In queste memorie essi compaiono come personaggi di contorno, fragili vittime dello star system, al contrario di un Brando perfetto mediatore tra pubblico e privato, e perfetto uomo d’affari a partire dalla costruzion­e e vendita della propria immagine, un’immagine tuttavia impression­ante e per qualche tempo nuova e rivelatric­e.

TENTò LA REGIA, NEL 1960, CON UN BEL WESTERN, MA FU LA SOLA VOLTA, PERCHé A FAR L’ATTORE GUADAGNAVA DI PIù

Marlon Brando

Robert Lindsey

Le canzoni che mi insegnava mia madre

La nave di Teseo, pagg. 400, € 20

 ?? ?? Bello e dannato.
Nel «Tram chiamato desiderio» di Elia Kazan (1951)
AFP
Bello e dannato. Nel «Tram chiamato desiderio» di Elia Kazan (1951) AFP

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