POESIA D’ITALIA IN NOVE LEZIONI
In «Carte correnti», Roberto Galaverni propone composizioni liriche del secondo Novecento che mettono «direttamente in scena il processo di costituzione del senso poetico»
Cosa fa esattamente un critico letterario? Non è facile spiegarlo a chi non vive di letteratura. Quello che sorprende in genere i non addetti ai lavori non è il gran numero di libri che un critico legge settimanalmente: l’elemento davvero misterioso è tutto il tempo investito a rileggere le stesse opere. I testi più amati accompagnano infatti per anni o decenni il critico, che, con un doppio movimento, ambisce a decifrarli ma li usa anche per decifrare la propria vita.
Cosa si aspetta un critico letterario da questo lavoro di Sisifo? A poco a poco, emergono costanti, punti di contatto, enigmi ricorrenti, pattern sonori, interrogativi filosofici. Ci si smarrisce nel familiare e poi ci si ritrova. La stessa scrittura, a lungo, non è che esercizio propedeutico alla futura visione. La cosa terribile, però, è che il risultato finale non è assicurato. Per quanto ci si impegni, il salto di livello non si produce che dopo una lunga dedizione, ma per molti non arriva mai.
Leggendo le 664 pagine di Carte correnti. Nove lezioni sul senso della poesia di Roberto Galaverni, oggi critico di poesia del «Corriere della Sera», viene da pensare, un poco ammirati: ecco una vita spesa bene. Galaverni è autore parchissimo: per gli standard accademici (ma lui ha scelto di non insegnare) quasi indolente. Due monografie sulla poesia italiana negli ultimi vent’anni, Dopo la poesia (2002) e Il poeta è un cavaliere Jedi (2006), e una miriade di testi più brevi. Insomma un vero critico-critico (da distinguere dal più diffuso critico-accademico), come se ne contano sempre di meno.
Carte correnti è un libro sorprendente, frutto del lungo processo di decantazione che solo può dare a un saggista quel potere di cogliere l’ultravioletto e l’infrarosso dei testi che lo distingue dai lettori comuni. Il volume propone la lettura di nove composizioni poetiche del secondo Novecento che non formano però un vero e proprio canone, perché a Eugenio Montale, Andrea Zanzotto, Vittorio Sereni e Franco Fortini affianca l’assai meno conosciuto Remo Pagnanelli e si apre ai contemporanei Milo De Angelis e Valerio Magrelli. L’assenza di Giorgio Caproni (e della neoavanguardia) mostra che non è una storia discontinua ciò che Galaverni si propone. Si tratta, piuttosto, di ragionare per esempi, ascoltando nel frattempo il parere del più gran numero di esperti in materia – a cominciare da Dante e Leopardi, frequentemente evocati per le loro riflessioni sul fare letterario.
A Galaverni stanno a cuore i testi che mettono «direttamente in scena il processo di costituzione del senso poetico»: non composizioni meta-poetiche, ma che mostrano l’identità «tra le modalità della rappresentazione e la situazione rappresentata, tra il come si dice e il cosa si dice». La questione (complessa ma spiegata chiaramente nel volume) riemerge in tutti i capitoli. Ancora più importante, per l’unità del libro, è però la forma in cui Galaverni espone le proprie tesi: quella della lezione immaginaria o rivissuta. Alla base dei diversi affondi ci sono vere conferenze tenute negli anni e ampiamente rielaborate (ci fa sapere in apertura), ma il richiamo a una (finta) oralità e a una platea (per quanto vuota) serve a conferire il giusto tono al discorso. Come in tanta poesia novecentesca, c’è una seconda persona implicita, che evita che la ruminazione intellettuale si avviti fatalmente su sé stessa. Per questo, le sezioni più complesse sono stampate in corpo minore, quasi a segnalare che qui stiamo uscendo dal dialogato per avventurarci piuttosto in una dimensione diversa: della scrittura, o dello studio, o della dimostrazione minuziosa di ciò che a voce si può provare solo fino a un certo punto (il lettore più impaziente potrà saltarle, ma a un costo).
La forza di Galaverni è nell’approccio tecnico-sapienziale che lo contraddistingue. La poesia è sempre concreta, e così la critica. Parlarne in termini vaghi equivale a ucciderla: guai ai pastori dell’Essere o ai giudici che non motivano mai le loro sentenze inappellabili! Precisione non significa però ridursi alla descrizione metrica o retorica del testo, né tanto meno sterilizzare la sua verità esistenziale (o metafisica o politica o linguistica). Diciamo semmai che la faticosa pratica della rilettura e dell’analisi, produce nel tempo considerevoli depositi sul fondo della tazza. Ed è precisamente in quei depositi che alla fine del percorso il critico può provare a coglierne, da mago o rabdomante, il senso.
Il processo, in realtà, non è così lineare, perché Galaverni pendola continuamente tra i due poli (che in qualche modo, se ci si pensa, corrispondono un poco al “come” e al “cosa” della poesia). Vietato procedere in un solo verso: l’interpretazione è ne
A MONTALE, ZANZOTTO, SERENI E FORTINI AFFIANCA IL MENO NOTO PAGNANELLI E I CONTEMPORANEI DE ANGELIS E MAGRELLI
cessariamente bustrofedica. Ma del suo approccio colpisce anzitutto la compresenza di inclinazioni apparentemente opposte e spesso incompatibili. Banalizzando un poco: assai di rado un critico di poesia è allo stesso tempo così tecnicamente ferrato e così soteriologico, cioè così desideroso di mostrarci l’importanza dell’insegnamento che può venirci dalla voce dei poeti. Galaverni chiede alla poesia di salvarlo e di salvarci: le restituisce urgenza, ci coinvolge nella sua ricerca. Ma può farlo unicamente attraverso un corpo a corpo con la sua materia, mettendo dunque al centro dell’analisi i fenomeni di stile, persino i più minuti e invisibili. E questo corpo a corpo riassume, appunto, decenni consumati caparbiamente, quasi dissennatamente (perché senza alcuna garanzia di successo) sugli stessi autori. Come solo un vero critico per vocazione può essere disposto a fare.
Roberto Galaverni
Carte Correnti. Nove lezioni sul senso della poesia
Fazi, pagg. 684, € 25