LIBIDO FEMMINILE, NON TI CAPISCO!
Così scriveva Sigmund Freud all’allievo Karl Abraham in una delle lettere che si sono scambiati per 20 anni. Un confronto straordinario che segue i passi di una delle più grandi rivoluzioni del pensiero culturale del Novecento
L’intimità con cui entriamo in contatto leggendo i carteggi rende quasi sempre la lettura un po’ speciale, un’esperienza profonda e leggera allo stesso tempo. Se poi gli scambi non sono quelli tra due amanti separati dal destino, o tra amici fraterni, ma tra due uomini di genio, come Sigmund Freud e Karl Abraham, che si confrontano sulle loro scoperte e congetture, permettendoci di seguire in diretta i primi passi di una delle più grandi rivoluzioni del pensiero culturale e scientifico del Novecento, cioè la nascita della psicoanalisi, l’esperienza diventa ancor più avvincente e genera nel lettore – perlomeno in me – una sorta di pudore, una leggera inquietudine, nell’identificarsi con gli aspetti più umani, quotidiani, competitivi, talvolta infantili dei due.
Questa è stata la mia esperienza nell’affrontare il volume appena uscito da Alpes sotto la sapiente cura di Mario Bottone, Riccardo Galiani e Francesco Napolitano, che presenta l’edizione integrale delle Lettere tra i due, dal 1907 al 1925. Il carteggio – integrazione importantissima al corpus di opere freudiane – si conclude con una lettera di condoglianze datata 17 gennaio 1926, che Freud ha esitato a lungo prima di inviare a Hilde Abraham, dopo la scomparsa del brillantissimo allievo, di vent’anni più giovane di lui.
I quasi 20 anni precedenti sono testimoniati in uno scambio appassionato ed estremamente vivo, nutrito da quella vorace pulsione verso la conoscenza che sarà teorizzata alcuni decenni dopo proprio da Melanie Klein, la più geniale delle pazienti e allieve di Abraham, che da Berlino emigrerà a Londra, così come sarà costretto a fare Freud.
Ma torniamo al 1907. Karl Abraham è un giovane e promettente psichiatra, trentenne, si trova in Svizzera, al Burghölzi di Zurigo, dove lavora con Eugen Bleuer e Carl Gustav Jung, che lo introducono ai primi scritti e al nascente pensiero di Freud. Abraham incomincia a sottoporre a Freud le sue osservazioni, concentrandosi in particolare su quella che allora chiamava dementia praecox, e che oggi chiameremmo schizofrenia: interroga il maestro sulla capacità dei malati di «reagire con il sentimento» e sulla relazione tra lo sviluppo della capacità di amare e «lo sviluppo insufficiente della personalità». Trova Freud poco incline a prendere in considerazione questa parola – personalità – che avrà invece molto successo nella psicoanalisi della seconda metà del secolo, ma è immensamente grato nell’incontrare nel maestro qualcuno che, come lui, è «dell’umore giusto per discutere».
Nel carteggio però non incontriamo soltanto il Freud venerato Maestro, ma anche un Freud supervisore – a cui Abraham sottopone i casi più complessi – un Freud editore – che sceglie e poi corregge i lavori dei primi allievi – un Freud politico, strategico e timoroso, che segue le sorti del nascente movimento psicoanalitico come un padre allo stesso tempo autoritario e un po’ apprensivo. Lo vediamo nella più nota vicenda del rapporto con Jung, nella quale Abraham si trova in mezzo, invischiato e in competizione. Freud – che considera Abraham, ebreo come lui, più vicino alla propria «costituzione intellettuale» rispetto a Jung, «cristiano e figlio di un pastore», che può avvicinarsi al suo pensiero solo «a costo di grandi resistenze interiori»– non si arrende e per molto tempo accuserà Abraham di non aver provato, non aver facilitato, lo terrà in ombra rispetto all’altro allievo, prima favorito, poi grande traditore (per aver rinunciato – lo sappiamo – alla teoria della libido in favore di una visione dell’inconscio come entità universale e mistica, radicata in miti e archetipi collettivi). Emerge un Freud umano, talvolta possessivo, persino impulsivo nei giudizi, a cui Abraham offre un ascolto costante e paziente, talvolta subendone le imperiosità. Il metodo – ricordiamolo – è pericoloso prima di tutto per chi lo pratica. Abraham troverà il coraggio di sfogarsi anni dopo, quando Freud, di nuovo nel guado di una difficile questione diplomatica, lo criticherà ancora, quasi fosse il parafulmine delle sue intemperanze. Soltanto pochi mesi prima di morire – quando è presidente della Società Psicoanalitica Internazionale che ormai non è più un Comitato Segreto – Abraham risponderà spazientito al maestro: «Lei sorvola con indulgenza su tutto quanto vi era di contestabile nel comportamento delle persone in questione; in compenso scaricava su di me tutti i rimproveri che in seguito riconosceva come ingiustificati».
Freud è anche sempre serio e preziosissimo sostenitore dello sviluppo del pensiero dell’allievo; per esempio quando Abraham, timidamente, farà notare al «caro Professore», che nella melanconia non aveva notato un processo a cui invece l’allievo incomincia a prestare attenzione, uno degli esiti più frequenti, «qualcosa di regolare»: «il cambiamento repentino dalla malinconia in mania», quella sorta di stato di “festa” che caratterizza gli stati maniaco-depressivi e la cui osservazione aprirà la strada a molti degli sviluppi più floridi della teoria psicoanalitica dello sviluppo della personalità – ebbene sì, la personalità!
Moltissimi sono gli argomenti su cui i due si confrontano, in un dialogo sempre più paritario con il passare degli anni. Uno è l’applicazione della psicoanalisi all’arte, quegli scritti allora destinati alla neonata rivista Imago, dove Freud nel 1914 pubblicherà per la prima volta il suo Mosè di Michelangelo in forma anonima perché – confessa all’amico in una lettera – «mi vergogno del suo chiaro dilettantismo». Alcuni anni prima, nel 1911, Abraham aveva stupito Freud con il suo scritto su Segantini, confessandogli che nelle Cattive madri dell’artista sentiva risuonare «alcuni complessi personali».
Accanto ai contenuti e alle riflessioni teoriche e personali che incontriamo, la ricchezza del carteggio sta nella relazione densissima che vive nelle pagine, una relazione tra allievo e Maestro in cui i due sono capaci di ascoltarsi e anche cambiare idea, come farà Freud stesso, consapevole dei propri limiti e fidandosi dei suoi interlocutori, quando nel 1924 si rivolge al circolo ristretto dei suoi allievi per esortarli a non inibire la propria attività produttiva per compiacerlo: «Se ogni volta e per ogni nuova idea volete aspettare che io sia d’accordo si corre il rischio che nel frattempo le idee diventino vecchie».
Mi piace chiudere queste poche riflessioni pensando ad Abraham, che il caso ha voluto essere analista e maestro di tre delle più grandi donne della prima generazione di psicoanaliste (Melanie Klein, Helen Deutsch, Karen Horney). Un maestro capace di riconoscerne il genio, mosso da una curiosità acuta verso ciò che non conosceva, come la «fioritura vaginale della libido femminile», su cui interroga il maestro perché, al contrario di quanto Freud aveva teorizzato, la immagina precoce e non secondaria alla castrazione. A lui Freud risponde con inconsueta schiettezza: «ammetto senz’altro che il lato femminile del problema è per me straordinariamente oscuro».
Sigmund Freud, Karl Abraham Lettere 1907-1925
Edizione integrale italiana cura di Mario Bottone, Riccardo Galiani e Francesco Napolitano, Alpes, pagg. 674, € 44