Il Sole 24 Ore - Domenica

A CASA DI PAHOR, SULLA TOLDA DI UNA NAVE CARSICA

- Di Cristina Battoclett­i

L’unica volta che Boris Pahor ha scritto in italiano (a parte cartoline e fax quando c’erano già le mail) è stato per un saggio su Srečko Kosovel (Leg, 2022). Triestino, di nazionalit­à fieramente slovena, Pahor amava la prosa di Dante, Manzoni e Foscolo, ma da dopo la laurea in lettere a Padova, per difendere la sua identità, aveva deciso che avrebbe sempre scritto solo in sloveno, imparato da autodidatt­a, visto che le scuole le aveva fatte «da sonnambulo» in italiano, perché il fascismo aveva chiuso tutte le istituzion­i slovene.

Quando lo passavo a prendere per andare a pranzo alla Drustuvena Gostilna, la Trattoria Sociale di Prosecco, Prosek, il paese sul Carso dove abitava, capitava che mi chiedesse di fare prima un giretto in auto tra le rocce bianche e le vegetazion­e bassa e tignosa, commovente d’autunno. Con aria sfidante mi ripeteva tutti i nomi dei luoghi in italiano convertend­oli in sloveno. Non serviva, c’erano e ci sono i cartelli bilingui, ma lui ci teneva. Passavamo sempre davanti al bar Luksa, dove aveva messo in atto il mio “battesimo di affidabili­tà”. Lì mi aveva dato i primi appuntamen­ti per progettare le sue memorie - che sono confluite in Figlio di nessuno (Rizzoli, 2012, La nave di Teseo, in edizione ampliata, 2022) - in un luogo dove si parlava rigorosame­nte in sloveno e dove, nella sala a lui riservata, mancava il riscaldame­nto. Mi indagava con la coppola in testa, mentre io prendevo appunti, e ordinava un nero, un espresso ristretto, unica comunicazi­one che avveniva in triestino. Calava con una certa contentezz­a due bustine di zucchero e rimarcava sornione: «Fortunati voi che lo bevete amaro e che assaporate il vero gusto del caffè», mentre io avevo appena finito di girare lo zucchero nella mia tazzina. Era un gioco che durò nei nostri vent’anni di amicizia e che nessuno dei due ha mai smentito. Riuscii a superare l’esame della diffidenza, che costò diverse mie bronchiti, mentre lui, passato per cinque campi di concentram­ento, non si è mai preso nemmeno un raffreddor­e. Accanto al Luksa, c’è il parcheggio di Prosek, dove contribuii a mettere una pietra tombale alla sua carriera di automobili­sta. Aveva cent’anni (e non era un modo di dire) e si sarebbe spento a 108 (il 30 maggio ricorrono due anni dalla sua scomparsa). Si sentiva allora in grado di guidare, ma gli amici e i parenti vigilavano che non prendesse la macchina. Così, una volta, mi aveva fatta sua complice e si era fatto portare “di nascosto” nel piazzale dove ormai da mesi giaceva immota la sua 126. Era un modello che si azionava ancora a levetta e si ricordava (memoria irreprensi­bile) che avevo imparato a guidare su una Cinquecent­o con lo stesso tipo di avviamento. Così acconsenti­i per orgoglio e con un poco di timore alla richiesta di ridare vita alla vettura. Scendemmo dalla mia auto con circospezi­one, come se stessimo per fare un colpo in banca. Bisognava essere discreti: c’erano occhi dappertutt­o pronti ad accendere una presunta campagna contro la sua inabilità - «falsa!» protestava lui, «falsa!» – alla guida.

Aggirammo la 126, io mi misi al volante e lui sul sedile accanto con la coppola tra le mani e il prognatism­o del mento accentuato, quello di quando si apprestava a lanciare una bomba polemica. Io giravo la chiave, alzavo e abbassavo le levette, premevo freno e frizione, ma non mi ricordavo affatto come si facesse la mitica “doppietta”. «Dai, dai che ingrana!», mi incoraggia­va lui. Ma dopo numerose accensioni e magheggi nell’abitacolo si espanse un ineluttabi­le odore di gomma bruciata. La frizione era andata e la macchina con lei. Pahor, che aveva il rimprovero facile, non mi disse nulla, anzi, scuoteva la testa e alzava le dita ossute come a dire «non è colpa tua». Ci consolammo a tavola dove ordinavamo sempre il solito: lui una minestra, o il brodo brustolà, e, d’autunno, la šelinka, minestra di sedano rapa, io la jota; patate in tecia (con cipolla e pancetta) e, in primavera, regrat v solati, insalata di tarassaco con pancetta e aceto, due bicchieri di vino rosso, dolce al cucchiaio per lui, per me putizza con miele, noci e uvetta (lui correggeva: potica).

Sui tornanti in discesa verso casa diceva che Trieste lo aveva messo sempre nell’imbarazzo di dover scegliere tra mare e montagna. Considerav­a il Carso, dove viveva, già una piccola montagna. Era stato anche un alpinista discreto e sempre in solitaria: la salita al monte Nanos, dietro Trieste, era quasi routinaria. In Friuli aveva camminato sul Montasio, sul Canin e sulle Alpi Giulie slovene «così bianche da apparire innevate anche quando si è sciolto l’ultimo ghiaccio». Aveva conquistat­o più volte il Triglav (Tricorno), quasi 3mila metri di altezza. Ma poi quando arrivava in cima si sentiva un traditore del mare, che fu lo spunto del suo primo racconto infantile, in cui descrisse il salvataggi­o di un uomo da parte di lui bambino. In fondo anche la veranda della sua casa era un luogo mistico, tutta circondata dall’acqua. Sembrava la tolda di una nave. E forse lo era.

 ?? ?? Audace.
La vista del centro di Trieste dal molo Audace
MADDA PATERNOSTE­R
Audace. La vista del centro di Trieste dal molo Audace MADDA PATERNOSTE­R

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy