SULLE DOLINE DI SREčKO KOSOVEL
Per celebrare i 120 anni dalla nascita del poeta sloveno si può percorrere il sentiero tra la natia Sežana, passando per le vigne, accanto a chiese con il campanile bianc, fino al suo paese
Il miglior modo per celebrare il 120° anniversario della nascita del poeta triestino sloveno Srečko Kosovel (1904-1926) è percorrere i chilometri del sentiero a lui dedicato sul Carso sloveno e immergersi negli odori e nei rumori delle sue poesie che tanto hanno a che fare con la violenta natura carsica e con quell’altra violenza portata qui dalla storia.
La vita di Srečko è breve come quella di una farfalla: nasce nel 1904 e muore di meningite nel 1926 a soli 22 anni lasciando una raccolta di poesie e qualche centinaio di lettere in cui si svolge il suo pensiero rivoluzionario e anticipatore dell’imminente tragedia che avrebbe sconvolto la sua terra. Quella Slovenia tagliata in tre parti da ingiuste frontiere e Trieste, laggiù sul mare, lontana eppure vicina, la più grande città slovena a quei tempi. «Com’è bella Trieste se la guardi con occhi calmi, sereni, con un silenzio intatto nell’anima, con l’anima non ferita». Kosovel percorreva a piedi i 12 chilometri fino a Opicina, dove prendeva il tram per recarsi ai teatri di Trieste e partecipare alla vita culturale della città. Il poeta ha appena 16 anni quando i fascisti incendiano il Narodni Dom, il centro culturale sloveno di Trieste, ma quel rogo resta impresso nella sua memoria. I Vespri triestini li chiama il regime. Per gli sloveni della Venezia Giulia e della Slavia veneta sono l’inizio della persecuzione più dura.
Il sentiero comincia a Sežana, città natale di Kosovel, ed è lo stesso che il poeta percorreva quando dalla casa di Tomaj andava a prendere il treno per Lubiana, la città mai amata dove studiò filosofia e letteratura. Si snoda dietro la chiesa raggiungendo il vicino Tabor, una collina coperta di boschi, di quei pini neri che sotto la bora si scuotono e urlano: «Pini, pini in silenzioso orrore,/ pini in muto orrore». «Sentinelle che sussurrano sulla landa pietrosa» li chiama Boris Pahor nel suo saggio sul poeta sloveno. Dopo la collina il sentiero scavalca l’autostrada per Lubiana, l’intrusa nel paesaggio, a segnare il tempo moderno, senza più frontiere. Mentre qui siamo a due passi dal vecchio valico di Fernetti che per noi italiani è stato a lungo la frontiera con la Jugoslavia, una patria che Kosovel non sente sua: «La colpa è del nostro servilismo. Se noi sloveni non accettassimo di starcene sotto i tacchi dello jugoslavismo, le cose andrebbero meglio. Ma forse è meglio così. È la pressione che fa i cristalli – saremo dei cristalli noi?» E nei suoi scritti spesso inveisce contro il piccolo mondo sloveno dove «la gretta borghesia pensa al denaro, mentre gli intellettuali hanno perso il contatto con le gente». Kosovel, patriota di ogni patria, nel senso mazziniano del termine, quasi ammira l’Italia che «ha schiacciato i clericalismi e i particolarismi» e capisce che l’identità di un popolo si fa con la cultura: «Noi sloveni dobbiamo aspirare soltanto a fini profondi, veri, grandi. La cultura deve essere il sostegno della nostra politica, non viceversa». Temi forti che la breve vita non gli dà il tempo di sviluppare. Dopo il colle di Lenicev, il sentiero tocca il paesino di Šmarje, dove boschi e prati hanno ognuno il loro nome perché il paesaggio carsico, apparentemente desolato e selvaggio, è invece gelosamente custodito dai suoi abitanti che sapientemente destinano ogni appezzamento alla giusta coltivazione.
Qui siamo in mezzo ai vigneti e da una svolta all’altra appaiono sulle creste le austere chiese carsiche con il campanile di pietra bianca sulla facciata che spicca fra la terra rossa delle doline. È l’universo di Kosovel, che pur consapevole delle grandi questioni del mondo, sempre ritorna alla purezza semplice dei fenomeni della terra. Nella sua poesia Kosovel si richiama agli stili dell’epoca: un costruttivismo tendente al futurismo con qualche vena di crepuscolarismo ma i suoi temi più forti sono quelli sociali e forse ancor più del patriottismo sloveno gli preme la rivolta contro l’ingiustizia: “Chiudiamo la fabbrica. Chiudiamo il gas,/ la corrente e l’acquedotto montano,/ mettiamoci i nostri picchetti/ per vedere, fratelli, chi è con noi,/ chi calpesta le nostre sofferenze./ E allora pensiamo alla rivolta». Non c’è aria di rivolta nell’addormentato borgo di Tomaj, dove sorge la casa di famiglia del poeta che ospita un piccolo museo, fra pacchiani villoni di vacanzieri lubianesi e agriturismi fintamente rustici. Kosovel è sepolto nel piccolo cimitero poco distante e un epitaffio scolpito nella pietra dice: «Fuoco pieno di forza inutilizzata qui giace in pace».
ERA CONVINTO CHE L’IDENTITà DI UN POPOLO SI FACESSE ATTRAVERSO LA CULTURA