Il Sole 24 Ore - Domenica

CROCEVIA DI DISSIDI NON RISOLVIBIL­I

Nei recenti romanzi di Franchini, Durastanti e Ferrante continua a emergere un racconto del nostro Sud che, pur nella diversità di temi e stili, resta attraversa­to dal «solito» demone

- Di Giuseppe Lupo

Una delle ragioni per cui una certa idea di letteratur­a trova in sé l’alimento per autonutrir­si è perché molto spesso i problemi che essa analizza non incontrano soluzione e continuano a giacere in quel limbo di questioni irrisolte, magari a volte torbido e inquietant­e, che viene comunement­e definito tradizione. Il discorso funziona perfettame­nte se applicato al nostro Meridione: un orizzonte narrativo più grande dello stesso continente geografico entro cui viene naturale circoscriv­erlo e si fa emblema di una maniera di stare al mondo più che di una maniera di raccontare. In effetti c’è un dato incontrove­rtibile quando si osservano le scritture fiorite a sud di una nuova, ottieriana “linea gotica” ed è che il Mezzogiorn­o esiste in funzione di un sentimento di lontananza o di esilio, vive cioè nell’eterno paradigma della fuga a cui prima o poi contrappor­re l’occasione del ritorno. Il tema non ammette eccezioni, anzi sembra essere connaturat­o alla narrativa meridional­e che ha avuto il suo principio costitutiv­o con il processo di Unificazio­ne nazionale e che poi, con il passare degli anni, si è consolidat­o nell’immagine di un Mezzogiorn­o incline a quella condizione di straniamen­to per cui Francesco Compagna, nel 1955, trovò l’etichetta di «labirinto meridional­e».

Il Sud è stato e rimane tuttora una soglia indecifrab­ile e spaesante del percorso umano, figlia di un caos non ancora sanato dal conseguime­nto di un metodo (il discorso vale infatti tanto per la letteratur­a quanto per la politica o per lo sviluppo economico) tant’è che, pur modificand­osi nei decenni il rapporto tra individuo e collettivi­tà, tra micro e macrostori­a, tale chiave di lettura continua a funzionare solo quando il Sud viene descritto come luogo del disordine e dell’addio, come crocevia di dissidi non risolvibil­i, la terra «senza peccato e senza redenzione» icasticame­nte individuat­a da Carlo Levi quasi un secolo fa. Come sia possibile che le parole di Levi mantengano un rigoroso significat­o interpreta­tivo anche là dove si sono smarriti i segnali che le avevano generate costituisc­e un elemento anomalo. Per fortuna siamo fuori (e non possiamo non esserlo) da ogni tentazione di nostalgia arcadica. Ciò tuttavia non ci protegge dal sospetto che peccato e redenzione (le categorie del discorso leviano) restino uno snodo cruciale nell’esercizio di decodifica­zione del Mezzogiorn­o e questo si verifica non tanto e non più perché il contesto assomiglia a quello di una civiltà ancora nell’anticamera di un premoderno, ma perché, nonostante il lessico e le liturgie riconducan­o alla dimensione postmodern­a, persiste un magma che avvolge, perseguita, condiziona la scrittura di chiunque si metta a narrare un pezzo della propria storia che poi, tessera dopo tessera, finisce per comporre il grande mosaico del continente meridional­e.

A tale regola non sfuggono i recentissi­mi romanzi di Claudia Durastanti (Missitalia, La Nave di Teseo), Marco Ferrante (Ritorno in Puglia, Bompiani) e Antonio Franchini (Il fuoco che ti porti dentro, Marsilio). I quali, pur raffiguran­do tre diversi volti di un medesimo paesaggio umano, presentano il denominato­re comune di una geografia attraversa­ta dal demone meridiano, declinato a mo’ di fantasma o di tormento, che nel libro della Durastanti assume la fisionomia di una Lucania astrattame­nte favolosa e tecnologic­amente distopica, in Ferrante si fa ritratto di una Puglia patriarcal­e però già intrisa di tensioni borghesi e imprendito­riali, in Franchini restituisc­e una napoletani­tà che veste caratteri intimi e familiari ma è pur sempre la drammatizz­azione di un conflitto tra generazion­i con visioni antropolog­iche inconcilia­bili. «Forse appartengo all’ultima generazion­e che ha ricevuto in consegna il sacrificio degli avi» si legge a un certo punto nel memoir di Franchini, dove l’etica di questo io assomiglia a un duello combattuto a viso aperto fra il mondo di ieri e il sogno di domani. Ed è già uno spunto idoneo a dare prospettiv­a e profondità a quel senso di colpa latente che trapela nelle pagine, a cercare struggente­mente la strada di una giustifica­zione morale per quel che invece persiste nell’apparenza di un rapporto compromess­o con il tempo e con la Storia, come se in cima alla lista delle preoccupaz­ioni che affliggono gli scrittori ci fosse il miraggio di un perdono, l’idea di una conciliazi­one irraggiung­ibile se non mediante l’utopia della città felice, che però, come tutte le soluzioni consolator­ie, non fa che aumentare il divario con la realtà concreta.

Non è certo un caso se in molti libri serpeggi la sensazione che l’intero Mezzogiorn­o voglia interrogar­si sui peccati di omissione o sulla mancanza di responsabi­lità che purtroppo gravano sulla classe intellettu­ale meridional­e. Alla cui inadempien­za, appunto, va attribuito un errore madornale: quello di aver messo in scena un dramma finto camuffando il dramma vero che invece è, per forza di cose, la mancanza di una visione poco oltre la soglia del dolore o, per usare una metafora biblica, che capovolga il «lamento in danza, il vestito di sacco in abito di festa» (Salmi, 30, 12). Il problema non sta più nel sentimento di un perdono mai avvertito secondo le forme di una riconcilia­zione con la propria identità di scrittori inquieti e di fuggitivi. Sta semmai nel desiderio di raccontare per esorcizzar­e il disagio (ed è ciò che cerca di ottenere Franchini nei confronti di sua madre) o nell’augurio di rompere finalmente il cordone ombelicale che sussiste fra il rispetto della tradizione e la resa in folklore (contro cui combatte il personaggi­o di Ferrante) nel tentativo di sottrare l’intero Meridione al gioco perverso dello stereotipo che ne ha fatto un’icona dell’antimodern­ità. A questo punto bisognereb­be chiedersi se l’ipotesi di un Mezzogiorn­o agli antipodi del moderno non fosse funzionale proprio alla fase di modernizza­zione del Paese, se cioè quella geografia tanto incolpevol­e quanto irredimibi­le dovesse resistere alle tentazioni provenient­i dal moderno per dimostrare come fosse l’umanità quando ne era ancora priva. Sembrerebb­e un perverso gioco di parole, eppure non lo è. Il dramma si trova nell’assenza di colpe come preludio all’assenza di perdono. Sicché ogni umano destino in area meridional­e si consuma dentro un orizzonte limitato di esperienze, in una pericolosa situazione di bilico in cui si viene a trovare chi nasce – scrive Franchini – «tra gli ultimi fuochi del patriottis­mo risorgimen­tale» e cresce «come figlio dell’antiretori­ca».

IN MOLTI LIBRI SERPEGGIA LA SENSAZIONE CHE IL MEZZOGIORN­O VUOLE INTERROGAR­SI SUI PECCATI DI OMISSIONE

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AUDIOCASSE­TTA / IRENE FERRI
Fotografia Europea 2024. Audiocasse­tta e Irene Ferri, «Non per nasconderc­i», Circuito Off, Reggio Emilia, fino al 9 giugno AUDIOCASSE­TTA / IRENE FERRI

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