CROCEVIA DI DISSIDI NON RISOLVIBILI
Nei recenti romanzi di Franchini, Durastanti e Ferrante continua a emergere un racconto del nostro Sud che, pur nella diversità di temi e stili, resta attraversato dal «solito» demone
Una delle ragioni per cui una certa idea di letteratura trova in sé l’alimento per autonutrirsi è perché molto spesso i problemi che essa analizza non incontrano soluzione e continuano a giacere in quel limbo di questioni irrisolte, magari a volte torbido e inquietante, che viene comunemente definito tradizione. Il discorso funziona perfettamente se applicato al nostro Meridione: un orizzonte narrativo più grande dello stesso continente geografico entro cui viene naturale circoscriverlo e si fa emblema di una maniera di stare al mondo più che di una maniera di raccontare. In effetti c’è un dato incontrovertibile quando si osservano le scritture fiorite a sud di una nuova, ottieriana “linea gotica” ed è che il Mezzogiorno esiste in funzione di un sentimento di lontananza o di esilio, vive cioè nell’eterno paradigma della fuga a cui prima o poi contrapporre l’occasione del ritorno. Il tema non ammette eccezioni, anzi sembra essere connaturato alla narrativa meridionale che ha avuto il suo principio costitutivo con il processo di Unificazione nazionale e che poi, con il passare degli anni, si è consolidato nell’immagine di un Mezzogiorno incline a quella condizione di straniamento per cui Francesco Compagna, nel 1955, trovò l’etichetta di «labirinto meridionale».
Il Sud è stato e rimane tuttora una soglia indecifrabile e spaesante del percorso umano, figlia di un caos non ancora sanato dal conseguimento di un metodo (il discorso vale infatti tanto per la letteratura quanto per la politica o per lo sviluppo economico) tant’è che, pur modificandosi nei decenni il rapporto tra individuo e collettività, tra micro e macrostoria, tale chiave di lettura continua a funzionare solo quando il Sud viene descritto come luogo del disordine e dell’addio, come crocevia di dissidi non risolvibili, la terra «senza peccato e senza redenzione» icasticamente individuata da Carlo Levi quasi un secolo fa. Come sia possibile che le parole di Levi mantengano un rigoroso significato interpretativo anche là dove si sono smarriti i segnali che le avevano generate costituisce un elemento anomalo. Per fortuna siamo fuori (e non possiamo non esserlo) da ogni tentazione di nostalgia arcadica. Ciò tuttavia non ci protegge dal sospetto che peccato e redenzione (le categorie del discorso leviano) restino uno snodo cruciale nell’esercizio di decodificazione del Mezzogiorno e questo si verifica non tanto e non più perché il contesto assomiglia a quello di una civiltà ancora nell’anticamera di un premoderno, ma perché, nonostante il lessico e le liturgie riconducano alla dimensione postmoderna, persiste un magma che avvolge, perseguita, condiziona la scrittura di chiunque si metta a narrare un pezzo della propria storia che poi, tessera dopo tessera, finisce per comporre il grande mosaico del continente meridionale.
A tale regola non sfuggono i recentissimi romanzi di Claudia Durastanti (Missitalia, La Nave di Teseo), Marco Ferrante (Ritorno in Puglia, Bompiani) e Antonio Franchini (Il fuoco che ti porti dentro, Marsilio). I quali, pur raffigurando tre diversi volti di un medesimo paesaggio umano, presentano il denominatore comune di una geografia attraversata dal demone meridiano, declinato a mo’ di fantasma o di tormento, che nel libro della Durastanti assume la fisionomia di una Lucania astrattamente favolosa e tecnologicamente distopica, in Ferrante si fa ritratto di una Puglia patriarcale però già intrisa di tensioni borghesi e imprenditoriali, in Franchini restituisce una napoletanità che veste caratteri intimi e familiari ma è pur sempre la drammatizzazione di un conflitto tra generazioni con visioni antropologiche inconciliabili. «Forse appartengo all’ultima generazione che ha ricevuto in consegna il sacrificio degli avi» si legge a un certo punto nel memoir di Franchini, dove l’etica di questo io assomiglia a un duello combattuto a viso aperto fra il mondo di ieri e il sogno di domani. Ed è già uno spunto idoneo a dare prospettiva e profondità a quel senso di colpa latente che trapela nelle pagine, a cercare struggentemente la strada di una giustificazione morale per quel che invece persiste nell’apparenza di un rapporto compromesso con il tempo e con la Storia, come se in cima alla lista delle preoccupazioni che affliggono gli scrittori ci fosse il miraggio di un perdono, l’idea di una conciliazione irraggiungibile se non mediante l’utopia della città felice, che però, come tutte le soluzioni consolatorie, non fa che aumentare il divario con la realtà concreta.
Non è certo un caso se in molti libri serpeggi la sensazione che l’intero Mezzogiorno voglia interrogarsi sui peccati di omissione o sulla mancanza di responsabilità che purtroppo gravano sulla classe intellettuale meridionale. Alla cui inadempienza, appunto, va attribuito un errore madornale: quello di aver messo in scena un dramma finto camuffando il dramma vero che invece è, per forza di cose, la mancanza di una visione poco oltre la soglia del dolore o, per usare una metafora biblica, che capovolga il «lamento in danza, il vestito di sacco in abito di festa» (Salmi, 30, 12). Il problema non sta più nel sentimento di un perdono mai avvertito secondo le forme di una riconciliazione con la propria identità di scrittori inquieti e di fuggitivi. Sta semmai nel desiderio di raccontare per esorcizzare il disagio (ed è ciò che cerca di ottenere Franchini nei confronti di sua madre) o nell’augurio di rompere finalmente il cordone ombelicale che sussiste fra il rispetto della tradizione e la resa in folklore (contro cui combatte il personaggio di Ferrante) nel tentativo di sottrare l’intero Meridione al gioco perverso dello stereotipo che ne ha fatto un’icona dell’antimodernità. A questo punto bisognerebbe chiedersi se l’ipotesi di un Mezzogiorno agli antipodi del moderno non fosse funzionale proprio alla fase di modernizzazione del Paese, se cioè quella geografia tanto incolpevole quanto irredimibile dovesse resistere alle tentazioni provenienti dal moderno per dimostrare come fosse l’umanità quando ne era ancora priva. Sembrerebbe un perverso gioco di parole, eppure non lo è. Il dramma si trova nell’assenza di colpe come preludio all’assenza di perdono. Sicché ogni umano destino in area meridionale si consuma dentro un orizzonte limitato di esperienze, in una pericolosa situazione di bilico in cui si viene a trovare chi nasce – scrive Franchini – «tra gli ultimi fuochi del patriottismo risorgimentale» e cresce «come figlio dell’antiretorica».
IN MOLTI LIBRI SERPEGGIA LA SENSAZIONE CHE IL MEZZOGIORNO VUOLE INTERROGARSI SUI PECCATI DI OMISSIONE