PEREGALLI, IL POETA BANCARIO TRA VERSI E FOTO
Nella Milano della società borghese, Peregalli è un cognome di certa notorietà, di una famiglia con esponenti nelle diverse professioni, di quella tipologia che non sempre si ricorda dopo la scomparsa. Pochi, per esempio hanno memoria della figura di Alessandro, che ha vissuto buona parte del secolo scorso, dal 1923 al 1989, con alterne fortune. Bancario di scarsa vocazione e trasporto, Peregalli coltiva a lungo la poesia; ma lo fa in modo discontinuo, con poche e centellinate raccolte, pubblicate a grande distanza tra loro. La prima, Altopiano, esce per Guanda nel 1955. Caratterizzata da una versificazione decisamente fuori da qualsiasi schematismo, quasi prosastica attira l’attenzione di alcuni recensori illustri, tra i quali, in parte perplessi ma nient’affatto scontati, Eugenio Montale e Pier Paolo Pasolini.
Per la seconda raccolta, La cronaca, devono passare 21 anni. Siamo nel 1976, e il libro si fa notare per la sua natura anomala: è, difatti, un “poema bancario”, in cui Peregalli riversa l’insoddisfazione del suo lavoro poco amato di “impiegato (piegato)”. Il tono colloquiale ricorda in qualche modo il Pagliarani della Ragazza Carla: «Gente frettolosa esce da una porta ed entra in un’altra, / s’incontrano, parlano un poco e poi si abbandonano, / come le formiche nel loro affrettato e minuscolo peregrinare». Nel clima arroventato degli anni di piombo, versi di questo tipo sono fuori da qualsiasi tendenza e nemmeno attenzioni illustri non bastano a indurre Peregalli a ulteriori pubblicazioni: le ultime poesie, inedite, verranno rese note da Pontiggia solo nel 2003, con un’edizione postuma.
Tre titoli in 80 anni: davvero troppo poco perché la memoria rompa il silenzio postumo. E spesso solo l’affetto familiare può creare una breccia nell’oblio dei posteri. Ha fatto quindi bene uno dei figli di Peregalli, Roberto, a riproporre all’attenzione del pubblico il nome del padre in un corposo volume, L’Anima (pagg. 648, € 47,50) che contiene il suo intero corpus poetico.
Il marchio è la Nave di Teseo: una scelta che non sorprende tutti coloro che conoscono l’attenzione che Elisabetta Sgarbi porta alla produzione spesso seminascosta di una certa borghesia milanese, che lei sa apprezzare anche nelle sue manifestazioni letterarie meno evidenti. Proprio a Sgarbi si deve il suggerimento di integrare i versi con una serie di fotografie che il bancario-poeta ha scattato nel corso degli anni: istantanee di esterni, di interni borghesi, ritratti della famiglia che cresce – nel rigore di un bianco e nero privo di fronzoli, un corollario importante alle parole che si sono lette in precedenza: in quei volti, in quei vestiti oggi tanto fuori moda, in quegli sguardi mai in posa risiede tutta la forza tranquilla di un ceto sociale che ha saputo passare sopra a storie spesso orribili e tragiche, ma anche alle insoddisfazioni quotidiane di una vita lavorativa priva di gioie.