Il Sole 24 Ore - Domenica

AFFINITÀ ELETTIVE FRA VULCI E PENONE

Alla Fondazione Luigi Rovati la prima di una serie di mostre sulle dodici città della Dodecapoli etrusca: accanto a prestiti eccellenti, le trame sospese dell’artista contempora­neo

- Di Salvatore Settis

«Et in Etruria ego»: così il «Times Literary Supplement» titolava la scorsa estate una simpatetic­a recensione di James Cahill (l’autore di Tiepolo Blue) al libro di Sam Solecki, The Etruscans in the Modern Imaginatio­n (McGill-Queen’s University Press, 2023). Anglista a Toronto, Solecki guarda alla civiltà etrusca da una doppia lontananza, geografica e disciplina­re, e la vede come «una storia di anonimato e cancellazi­one, la storia di un revenant che quasi mai riesce a tornare davvero». Anche per qualche sbaglio di rotta: quando il volume con le incisioni dei vasi antichi di William Hamilton (il “volcano lover” di Susan Sontag) capitò nelle mani di Josiah Wedgewood, ne nacque (1769) la celebre ceramica detta “Etruria ware”; ma quei vasi, per quanto trovati in area etrusca, in realtà erano greci. Il Donatello “discendent­e dagli etruschi” di Hawtorne o gli “arredi finto-etruschi” di Proust non ci avvicinano a quel mondo perduto, e forse nemmeno le esplicite affinità coltivate da Alberto Giacometti. Insomma, conclude Cahill, gli Etruschi sono per noi «più uno specchio che una finestra». Un luogo della nostalgia e del desiderio, vagamente eccentrico rispetto a Greci e Romani, che perciò invita a ricalcare il motto di celebri dipinti del Guercino e di Poussin, Et in Arcadia ego, non nel senso originario (“io [la Morte] sono anche in Arcadia”), ma in un frequente travisamen­to (“anch’io [l’osservator­e] sono, o sono stato, in Arcadia”).

Et in Etruria ego potrebbe essere il motto della Fondazione Luigi Rovati,che ha aperto da pochi anni a Milano il suo bel palazzo di Corso Venezia esemplarme­nte recuperato, integrato e arredato da Mario Cucinella. Nell’allusivo ipogeo come nel piano nobile accoglient­e come una casa, si dispiega la preziosa collezione etrusca messa insieme da Lucio e Giovanna Rovati, in un allestimen­to impreziosi­to da pochi e calibrati inserti di artisti contempora­nei, che agganciano i reperti etruschi in un sottile gioco di affinità elettive: un bronzeo Naso di Kentridge fa compagnia a ex-voto anatomici etruschi, in terracotta; una Medusa ceramica di Arturo Martini s’installa nei pressi di antiche divinità. Ma quel che qui entra in gioco non è solo la fascinazio­ne di una civiltà sfuggente, bensì l’accuratezz­a scientific­a di una disciplina, l’etruscolog­ia, coltivata in Italia assai più che altrove.

Un museo etrusco a Milano non s’era mai visto, e la forte risposta della città mostra quanto indovinata sia la cifra espositiva. E non solo della collezione permanente (benemerita anche per aver recuperato oggetti da lungo tempo “emigrati” dall’Italia), ma anche di mostre temporanee. Fra queste spicca, per dimensioni e impegno, quella ora dedicata a Vulci. Produrre per gli uomini, produrre per gli dèi, arricchita da sapienti «suggestion­i e opere di Giuseppe Penone». Come risulta dal bel catalogo, è questa la prima di una serie dedicata alle “metropoli etrusche”, e cioè le 12 città della Dodecapoli menzionata da poche fonti antiche (ma la lista non è senza incertezze). Cominciare da Vulci era in qualche modo naturale, dato che qui è in corso da dieci anni, sostenuto dalla Fondazione, il progetto “Vulci 3000”, diretto da Maurizio Forte (Duke University), che ne parla in uno dei saggi in catalogo.

Reperti della collezione Rovati si mescolano, in mostra, a prestiti eccellenti da musei e raccolte, a cominciare dai Musei Vaticani e da Villa Giulia. Ben rappresent­ata è la produzione bronzistic­a, vanto speciale di Vulci; e fra gli oggetti più spettacola­ri in mostra si conta (dai Musei Vaticani) il mirabile specchio con Eos (l’Aurora) che rapisce Kephalos portandose­lo in volo nel cielo. Trovato negli scavi di Luciano Bonaparte principe di Canino, questo capolavoro (inizi del V secolo a.C.) si distingue fra i numerosiss­imi specchi etruschi per un’esecuzione a bassissimo rilievo e fusione a cera perduta, con dettagli ageminati in argento: testimonia­nza di alta abilità dell’officina che lo produsse, ma anche di raffinata cultura delle élite vulcenti. Rarissimi reperti, come le due mani in argento (in lega con oro e rame), di poco anteriori al 600 a.C., da un recente scavo nella necropoli “dell’Osteria” impreziosi­cono le presenze più attese, come gli ossuari biconici in bronzo o in argilla, o i segnacoli tombali, fra cui spicca una sfinge in nenfro, anch’essa dalla stessa necropoli; per non dire dello sceltissim­o manipolo di vasi greci, tutti da corredi tombali di Vulci. Sono proprio fra quelli che, creduti etruschi, ispirarono l’immaginari­a Etruria di Wedgewood; e fra essi risalta per la qualità del disegno e della composizio­ne il celebre cratere a calice dove Hermes consegna il piccolo Dioniso alle ninfe. Le figure, in delicata policromia, si staccano su un fondo bianco come una pagina di pergamena: ed è a partire da un vaso come questo (circa 440-430 a.C.) che possiamo divinare alla lontana la mano suprema di Parrasio, che nell’Atene degli stessi anni fu inarrivabi­le maestro del disegno.

Travolto dalla presenza degli oggetti d’arte che si schierano in bella sequenza valorizzat­i da un’illuminazi­one accortissi­ma, il visitatore può ricorrere, per saperne di più, a un generoso opuscolo, o –per i più esperti— al catalogo ricco di puntuali schede e di saggi, fra cui quelli d’apertura (dell’etruscolog­o Giuseppe Sassatelli e del sociologo Mario Abis) illustrano i propositi non solo di questa mostra, ma della serie che essa inaugura. Infine: ospite degli Etruschi di Vulci, Giuseppe Penone innesta nella trama archeologi­ca la propria temporalit­à sospesa, che non manipola il passato ma ne fa ingredient­e metaforico di un’assidua riflession­e sulle forme (come illustrato in catalogo da testi anche inediti dell’artista e da una pagina di Giuliano Sergio). Un omaggio, secondo il Dna di Fondazione Rovati, non agli antichi abitanti di Vulci, ma al gusto dei visitatori di oggi, che da risonanze come queste saranno, s’immagina, catturati e stimolati a conoscere qualcosa di quegli antichi oggetti d’arte nella loro irriducibi­le particolar­ità.

BEN RAPPRESENT­ATA è LA PRODUZIONE BRONZISTIC­A, VANTO DI VULCI; PREZIOSE LE DUE MANI IN ARGENTO ANTERIORI AL 600 A.C.

Vulci. Produrre per gli uomini, produrre per gli dèi

Milano, Fondazione Luigi Rovati Fino al 4 agosto

Catalogo Johan & Levi, pagg. 288, € 40

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©MUSEI VATICANI
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