CACCIA A IPPOLITO, ENIGMATICA STATUA «GENDER FLUID»
Tra i biblisti è noto l’adagio riguardo a quella che un tempo si indicava come “Lettera di San Paolo Apostolo agli Ebrei” e di cui la filologia ha appunto stravolto l’interpretazione tradizionale: non è una lettera, non è di San Paolo e non è indirizzata agli Ebrei. Qualcosa di simile si potrebbe affermare per la statua di Ippolito posta all’ingresso della Biblioteca Apostolica Vaticana: colui che siede barbuto e austero con un volume sottobraccio non è Ippolito, non è un cristiano e non era nemmeno un uomo (bensì una donna).
L’avesse saputo, è assai probabile che Giovanni XXXIII non l’avrebbe recuperato dal Museo Lateranense e posto a solenne guardia della raccolta libraria pontificia, restituendogli il posto occupato dal momento del suo ritrovamento, che dovrebbe esser avvenuto tra 1550 e 1551, durante degli scavi tra la Nomentana e la Tiburtina. Il condizionale è d’obbligo, visto che la fonte della scoperta è la più infida di tutto il Rinascimento, italiano ed europeo: Pirro Ligorio, l’estroso architetto, che fu anche antiquario dalla grande immaginazione e dalla scarsa filologia, e un falsario abilissimo: sono sue decine e decine di iscrizioni finto-romane sparse un po’ ovunque.
Quando riemerse dal suolo, in realtà, non si trattava che di «una imagine che siede rotta, et mal trattata», di un sedile cioè cui erano rimaste attaccate – forse – un paio di gambe, e nulla più: niente più testa, niente busto e niente braccia. Un moncone o un «sasso col calendario», come si disse, poiché l’elemento più vistoso era l’iscrizione epigrafica greca che orna i due fianchi del sedile e il montante sinistro: vi è spiegato il complicato calcolo per l’individuazione della festa di Pasqua – che, a differenza del Natale, è mobile e cambia ogni anno – ed illustrata una tabella col calcolo già eseguito a partire dal 223 d.C., data dell’iscrizione stessa. Tanto che nel primo repertorio che la pubblica (1588), la statua è indicata, con un’eloquente prevalenza dell’elemento epigrafico su quello iconografico, come «Tavole per calcolare il giorno di Pasqua». Su uno dei montanti, poi, è incisa una stringata bibliografia coi titoli delle opere attribuite al vescovo Ippolito. Quando si decise di “restaurare” la statua – che attestava con la sua iscrizione una presenza cristiana a Roma anteriore all’imperatore Costantino e rappresentava dunque una prova concreta per smentire certe accuse protestanti – il ragionamento dovette essere più o meno di questo tenore (in Curia la filologia non brilla dai tempi di Lorenzo Valla): di chi sarà stata questa statua, sul cui sedile sono incise le opere del vescovo Ippolito? Del vescovo Ippolito, ovviamente, e dunque si provvide a creare un busto e una testa e delle braccia consoni a, e furono forse sostituite le gambe che avevano un’aria un po’ troppo esile e delicata.
Fu confezionato un Ippolito grave e perentorio, che rimase indisturbato riverito signore della Vaticana (e del Cortile del Belvedere) per quattro secoli. Fino a che un’archeologa, quella Margherita Guarducci celebre per gli studi sulla tomba dell’apostolo Pietro, iniziò a guardare più da vicino la statua, le giunture dei pezzi, il colore dei marmi, l’innaturale articolazione della figura, e a subodorare qualcosa. Grazie anche a un passaggio al laboratorio di restauro dei Musei Vaticani, la statua si rivelò per quello che era: una ricostituzione cinquecentesca, con materiali antichi e contemporanei, di una figura maschile barbuta e dotata dell’attributo iconografico del libro, seduta su un tronetto ben più antico e dalla foggia di quelli solitamente utilizzati per ospitare statue femminili. In particolare, le protomi leonine che lo ornano parvero alla Guarducci in tutto simili a quelle della statuaria tardoantica di ispirazione epicurea, portandola a formulare la sua ricostruzione: prima di essere Ippolito, quella figura – con quelle gambe giustamente esili e delicate – era stata Temistia di Lampsaco, filosofa epicurea. Si sarebbe trattato cioè di una copia d’età Antonina di una scultura ateniese databile alla prima metà del III secolo a.C., sistemata in una biblioteca classica dove, un secolo più tardi, una mano cristiana vi avrebbe inciso i testi relativi al calcolo della Pasqua. Finita sottoterra con la fine del mondo antico e frantumata dai mille eventi traumatici di quel periodo, ne sarebbe riemerso il solo sedile con l’iscrizione tarda, che, ritenuta coeva alla realizzazione della scultura e dunque “originaria”, divenne il punto di partenza per l’interpretazione, la datazione e la ricostruzione della statua, inevitabilmente false e arbitrarie.
Per riconsiderare, a distanza di 50 anni, la tenuta delle intuizioni di Margherita Guarducci ed estorcere a questa opera d’arte gender fluid altri segreti, un convegno è stato organizzato il prossimo 16 maggio in Biblioteca Vaticana. Data la complessità del problema e l’intrico delle questioni che (l’ormai ex) Ippolito pone, sono stati convocati restauratori, storici dell’arte e del cristianesimo delle origini, filologi, epigrafisti, storici della Chiesa e studiosi di computi antichi, nella speranza di far luce sulla vicenda. Che, quale che sarà l’esito, non comporterà alcuna rimozione o intervento sulla statua, anche perché in fondo,sehapersolesuecredenzialidi accigliatocustodedellaraccoltalibraria pontificia e tanto più di prototipo degli autori conservativi, ché la Vaticanaèsemprestatabibliotecaumanistica, e non confessionale, mantiene intatto il suo ruolo di padrone di casa, incarnando, con ancor maggior efficacia di un tempo, il monito che deveguidaresemprelostudioso: attenzione,perchélecosenon sono mai come sembrano!