CON LA LIUTERIA IL DISTRETTO SUONA
Cremona ha dimostrato che la filiera della produzione musicale è il suo forte. Ora è il momento di aprire il potenziale alla crescita
Il modello del distretto culturale ha conosciuto in Italia un notevole successo che è culminato intorno al primo decennio del nuovo secolo per poi andare progressivamente scemando. Per quanto i modelli di sviluppo locale siano soggetti, come ogni altra attività umana, a cicli fisiologici di crescita e di decadenza, nel caso specifico del distretto culturale la china discendente è stata accelerata da un proliferare di iniziative che, più che considerare il distretto un modello concreto dal quale trarre indicazioni precise per progettare politiche di sviluppo, lo hanno invece inteso come un ‘marchio’ identitario da applicare a qualunque genere di progetto o iniziativa, come se il marchio fosse, quasi magicamente, garanzia di successo.
Ma accanto a tante esperienze deludenti ce ne sono state invece altre ben progettate e riuscite, e il progetto sui distretti culturali promosso sul territorio lombardo dalla Fondazione Cariplo, nel quale si inserisce anche l’esperienza cremonese, è senz’altro da considerare tra i casi di grande qualità progettuale ed efficacia, come dimostrato dalla vitalità che ancora oggi caratterizza molti dei laboratori territoriali nati da quell’iniziativa.
Tuttavia, anche nei casi con esiti particolarmente felici, è opportuno riflettere su come il modello del distretto culturale sia oggi sottoposto a spinte di mutamento che non devono essere ignorate. La principale debolezza dei modelli classici di distretto culturale è stata quella di adottare la logica ‘monoprodotto’ tipica dei ‘cugini’ – i distretti industriali il cui successo competitivo è stato forse il principale fattore di traino che ha portato al proliferare dei distretti in ambito culturale. Alla base della logica del distretto monoprodotto c’era, tra le altre, l’idea che le competenze localizzate fossero poco mobili e che quindi il ‘saper fare’ legato alla cultura di prodotto di un determinato territorio fosse in realtà la sua risorsa competitiva più preziosa.
Questa intuizione aveva senz’altro un fondo di verità, ma come molti distretti industriali hanno imparato a proprie spese, nel medio termine anche le competenze localizzate possono essere replicate in altri contesti, forse con meno perizia e maestria, ma comunque in modo sufficiente a sostenere una competizione basata più sui costi che sulla qualità. Nel caso del distretto culturale, la criticità si è rivelata ancora più insidiosa in quanto l’elemento unificante era spesso non tanto una competenza localizzata quanto piuttosto la presenza sul territorio di beni culturali di pregio, tanto tangibili che intangibili, il cui valore culturale era però inevitabilmente legato alla capacità di mantenere il territorio culturalmente vitale e aperto all’evoluzione delle idee, mentre al contrario una sua cristallizzazione soprattutto a beneficio del turismo culturale avrebbe, e in effetti spesso ha, inevitabilmente portato all’impoverimento e alla stereotipizzazione della dimensione intangibile e alla tipica congestione da overtourism di quella tangibile.
Questo vuol dire che non ha più senso parlare di distretti, industriali o culturali che siano? La risposta è no: ha ancora senso farlo, se si comprende come il modello tende fisiologicamente ad evolvere. Se c’è una cosa che è effettivamente difficile trasferire altrove nel lungo termine, questa è il sistema delle relazioni tra gli attori territoriali: le competenze possono anche essere trapiantate, ma un sistema di relazioni vitale e profondamente radicato in un luogo chiaramente non può esserlo. E questo significa che i distretti di nuova generazione saranno tanto più capaci di generare valore economico e sociale quanto più saranno capaci di coinvolgere l’intero territorio in un sistema di relazioni che non si focalizza su una sola filiera o su un prodotto, ma che costruisce intorno all’eccellenza locale tante declinazioni quante sono le sfere che danno corpo al tessuto economico, sociale e civile: la salute e il benessere, la coesione sociale, la sostenibilità ambientale, la formazione, i processi innovativi, e così via. È proprio attraverso questa capacità di esplorare e far crescere nuovi processi di creazione di valore che il distretto continua a rinnovarsi e a mantenere una specificità territoriale che resiste al tempo, alle imitazioni e anche agli inevitabili errori ed incidenti di percorso. In questo senso, Cremona costituisce un caso da manuale: se indiscutibilmente le competenze territoriali associate alla liuteria e in senso più ampio alle filiere della produzione musicale sono ancora solide e non così facilmente riproducibili altrove, il grande potenziale di crescita futura non viene tanto dal consolidamento dello status quo quanto piuttosto dalla apertura verso una prospettiva realmente e radicalmente sistemica: ad esempio, esplorando la capacità della musica di contribuire alla salute fisica e mentale e alla qualità sociale, all’integrazione sociale dei soggetti più fragili, alla motivazione dei più giovani verso l’investimento educativo e alla lotta all’abbandono scolastico, alla capacità di ascolto dell’altro e di connessione empatica, allo sviluppo di competenze soft legate all’innovazione e all’imprenditorialità, e così via.
Ciascuna di queste nuove connessioni, se ben sviluppata, finisce per creare valore sotto forma di nuova impresa, nuovi servizi, nuove competenze. E per quanto ciascun territorio possa focalizzarsi su una particolare espressione artistica come in questo caso la musica, nei distretti culturali di nuova generazione (quelli che nel ciclo progettuale precedente si tendeva a definire ‘evoluti’ per distinguerli dalla logica distrettuale monoprodotto) diventa anche importante esplorare le connessioni tra le varie espressioni artistiche e culturali, che oggi tendono ad essere sempre più interdipendenti. Lo sviluppo di una piena logica sistemica ha ancora una volta bisogno di una solida cultura della progettazione e di una grande lucidità nella definizione e nella ‘messa a terra’ delle politiche. Ma le opportunità ci sono, ed è proprio da laboratori territoriali come Cremona, che hanno saputo far maturare nel tempo la progettualità anteponendo i risultati alla comunicazione e seguendo ritmi fisiologici di crescita, che possiamo aspettarci di veder nascere nuovi modelli distrettuali capaci di guidare ancora una volta un ciclo di sviluppo locale di successo.