COSì RIABILITO IL CENSORE. O FORSE NO
Cento anni fa le regole, oggi un libro francese rivaluta la figura del moralizzatore in chiave antirazzista. Anche se non convince del tutto
Nella primavera del 1934, giusto novant’anni fa, gli studios hollywoodiani s’affrettarono a fare uscire gli ultimi film realizzati prima della definitiva entrata in vigore del codice Hays, rigida autoregolamentazione sottoscritta tempo prima dall’associazione dei produttori americani. A giovarsi dello scampolo di libertà che restava negli ultimi mesi della cosiddetta epoca PreCode s’annoverano una dozzina di titoli. Tra questi, Belle of the nineties di Leo Mc Carey, scritto e interpretato dall’esplosiva Mae West, e Born to be bad di Lowell Sherman, in cui Loretta Young è una escort, ragazza madre e cattiva maestra: in Italia, dove i richiami antihollywoodiani di Pio XI si facevano sentire, non arriveranno mai. Per la cronaca l’ultimo a varcare la nostra soglia fu la commedia romantica Educande d’America (Finishing School) di George Nicholls Jr. e Wanda Tuchock, in cui d’audace v’era solo la fuga dal college di Frances Dee e Gingers Rogers decise a concedersi le gioie tentacolari di New York.
A Hollywood si chiudeva un’epoca – tra il ’31 e il ’34 – in cui, complici la Depressione e il Proibizionismo, lo schermo era stato specchio appena deforme di una realtà raccontata in assenza di filtri. Dove l’adulterio profanatore, la prostituzione, la corruzione dei politici e della polizia, la sessualità femminile emancipata e il fascino della delinquenza venivano messi in scena a tutto tondo senza che l’argomento delle mele marce o l’aggiunta di finali posticci imponessero una morale. Non si trattava solo della libertà di mostrare i piaceri di una vita sregolata o di far intendere che il delitto potesse rimanere impunito, ma piuttosto quella d’esprimere una visione del mondo innovatrice e vagamente sovversiva. Non a caso in quel triennio tumultuoso trovarono ad Hollywood momentanea cittadinanza autori poco accomodanti come Buñuel e Ejzenstejn.
Del decennale, meticoloso e indefesso, operato di William Harrison Hays le storie del cinema hanno reso conto a più riprese anche se il valore normativo del codice in chiave egemonica è stato evidenziato solo a tratti. Hays veniva da lontano: collaboratore del presidente repubblicano Harding; e finì lontano: mitigatore, negli anni 50, del proprio codice. In ogni caso il suo nome è sempre stato, a meno d’essere bigotti, più famigerato che famoso. Tutt’al più lo si è lodato in via indiretta perché le sue proibizioni (sesso, nudità, droga, violenza) e i suoi limiti (decoro, religione, patriottismo) costrinsero i registi a ricorrere a metafore ed ellissi – celebri quelle di Lubitsch e di Hitchcock – arricchendo così il proprio linguaggio.
Ma forse una revisione storica più radicale di altre già manifeste la merita anche Hays. Almeno agli occhi di due studiosi francesi, Francis Bordat e Frédéric Cavé che ne fanno, a sorpresa, un panegirico. L’elogio del censore è supportato da una ricerca puntigliosa e dettagliata che individua in lui la figura illuminata capace, con una tela tessuta nell’arco di un decennio (tutto cominciò con lo scandalo di Fatty Arbuckle), di arginare gli oscurantismi e illiberali – cattolici in primis – decisi a far valere le loro pretese. Di fatto rielaborando ipotesi precedenti ben più restrittive Hays riuscì nell’intento di fare accettare ai produttori un regolamento che sì difendeva la morale, ma soprattutto rassicurava i banchieri newyorkesi finanziatori dei tycoons, inorriditi dall’idea di sovvenzionare film in cui magari gli operai di una fabbrica fanno un giusto sciopero. Non solo. Il Mosè del cinema – come veniva chiamato – attraverso le sue tavole avrebbe aiutato Hollywood a farsi educatrice del pubblico e a rimanere nell’alveo di valori “democratici” evitando, per esempio, che si producessero film apertamente razzisti o addirittura inneggianti al Ku Klux Klan.
Insomma, secondo i due autori al presbiteriano avvocato ossessionato dall’ombelico femminile andrebbe eretto un monumento. Resta che del codice Hays molti furono le vittime. A cominciare da un gruppo di produttori indipendenti (The Forty Thieves) che spinsero l’acceleratore del proibito finendo nelle secche della pornografia. Non va dimenticato che inevitabilmente al codice s’accompagnò un’ atmosfera ostile alla creatività femminile. Straordinarie sceneggiatrici come Kathryn Scola (Female, Babe face)o Anita Loos (Born to be kissed, Red-Headed Woman) dovettero scegliere tra deporre le armi o edulcorare soggetti e dialoghi. Le loro protagoniste capaci di rivendicare comportamenti fuori norma in nome della libertà – anche se non necessariamente dell’emancipazione – scomparvero. Persino Betty Boop fu ricondotta alla ragione. Hays riuscì a rimettere il genio femminile nella bottiglia. Una buona ragione per non perdonarlo fino in fondo.
Francis Bordat e Frédéric
Cavé
Le Code
Haysafrhc éditions, pagg.223, €12