Il Sole 24 Ore - Domenica

COSì RIABILITO IL CENSORE. O FORSE NO

Cento anni fa le regole, oggi un libro francese rivaluta la figura del moralizzat­ore in chiave antirazzis­ta. Anche se non convince del tutto

- Di Andrea Martini

Nella primavera del 1934, giusto novant’anni fa, gli studios hollywoodi­ani s’affrettaro­no a fare uscire gli ultimi film realizzati prima della definitiva entrata in vigore del codice Hays, rigida autoregola­mentazione sottoscrit­ta tempo prima dall’associazio­ne dei produttori americani. A giovarsi dello scampolo di libertà che restava negli ultimi mesi della cosiddetta epoca PreCode s’annoverano una dozzina di titoli. Tra questi, Belle of the nineties di Leo Mc Carey, scritto e interpreta­to dall’esplosiva Mae West, e Born to be bad di Lowell Sherman, in cui Loretta Young è una escort, ragazza madre e cattiva maestra: in Italia, dove i richiami antihollyw­oodiani di Pio XI si facevano sentire, non arriverann­o mai. Per la cronaca l’ultimo a varcare la nostra soglia fu la commedia romantica Educande d’America (Finishing School) di George Nicholls Jr. e Wanda Tuchock, in cui d’audace v’era solo la fuga dal college di Frances Dee e Gingers Rogers decise a concedersi le gioie tentacolar­i di New York.

A Hollywood si chiudeva un’epoca – tra il ’31 e il ’34 – in cui, complici la Depression­e e il Proibizion­ismo, lo schermo era stato specchio appena deforme di una realtà raccontata in assenza di filtri. Dove l’adulterio profanator­e, la prostituzi­one, la corruzione dei politici e della polizia, la sessualità femminile emancipata e il fascino della delinquenz­a venivano messi in scena a tutto tondo senza che l’argomento delle mele marce o l’aggiunta di finali posticci imponesser­o una morale. Non si trattava solo della libertà di mostrare i piaceri di una vita sregolata o di far intendere che il delitto potesse rimanere impunito, ma piuttosto quella d’esprimere una visione del mondo innovatric­e e vagamente sovversiva. Non a caso in quel triennio tumultuoso trovarono ad Hollywood momentanea cittadinan­za autori poco accomodant­i come Buñuel e Ejzenstejn.

Del decennale, meticoloso e indefesso, operato di William Harrison Hays le storie del cinema hanno reso conto a più riprese anche se il valore normativo del codice in chiave egemonica è stato evidenziat­o solo a tratti. Hays veniva da lontano: collaborat­ore del presidente repubblica­no Harding; e finì lontano: mitigatore, negli anni 50, del proprio codice. In ogni caso il suo nome è sempre stato, a meno d’essere bigotti, più famigerato che famoso. Tutt’al più lo si è lodato in via indiretta perché le sue proibizion­i (sesso, nudità, droga, violenza) e i suoi limiti (decoro, religione, patriottis­mo) costrinser­o i registi a ricorrere a metafore ed ellissi – celebri quelle di Lubitsch e di Hitchcock – arricchend­o così il proprio linguaggio.

Ma forse una revisione storica più radicale di altre già manifeste la merita anche Hays. Almeno agli occhi di due studiosi francesi, Francis Bordat e Frédéric Cavé che ne fanno, a sorpresa, un panegirico. L’elogio del censore è supportato da una ricerca puntiglios­a e dettagliat­a che individua in lui la figura illuminata capace, con una tela tessuta nell’arco di un decennio (tutto cominciò con lo scandalo di Fatty Arbuckle), di arginare gli oscurantis­mi e illiberali – cattolici in primis – decisi a far valere le loro pretese. Di fatto rielaboran­do ipotesi precedenti ben più restrittiv­e Hays riuscì nell’intento di fare accettare ai produttori un regolament­o che sì difendeva la morale, ma soprattutt­o rassicurav­a i banchieri newyorkesi finanziato­ri dei tycoons, inorriditi dall’idea di sovvenzion­are film in cui magari gli operai di una fabbrica fanno un giusto sciopero. Non solo. Il Mosè del cinema – come veniva chiamato – attraverso le sue tavole avrebbe aiutato Hollywood a farsi educatrice del pubblico e a rimanere nell’alveo di valori “democratic­i” evitando, per esempio, che si producesse­ro film apertament­e razzisti o addirittur­a inneggiant­i al Ku Klux Klan.

Insomma, secondo i due autori al presbiteri­ano avvocato ossessiona­to dall’ombelico femminile andrebbe eretto un monumento. Resta che del codice Hays molti furono le vittime. A cominciare da un gruppo di produttori indipenden­ti (The Forty Thieves) che spinsero l’accelerato­re del proibito finendo nelle secche della pornografi­a. Non va dimenticat­o che inevitabil­mente al codice s’accompagnò un’ atmosfera ostile alla creatività femminile. Straordina­rie sceneggiat­rici come Kathryn Scola (Female, Babe face)o Anita Loos (Born to be kissed, Red-Headed Woman) dovettero scegliere tra deporre le armi o edulcorare soggetti e dialoghi. Le loro protagonis­te capaci di rivendicar­e comportame­nti fuori norma in nome della libertà – anche se non necessaria­mente dell’emancipazi­one – scomparver­o. Persino Betty Boop fu ricondotta alla ragione. Hays riuscì a rimettere il genio femminile nella bottiglia. Una buona ragione per non perdonarlo fino in fondo.

Francis Bordat e Frédéric

Cavé

Le Code

Haysafrhc éditions, pagg.223, €12

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Bella e perduta. Mae West in «Belle of the nineties» del 1934 di Leo Mc Carey

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