Il Sole 24 Ore - Domenica

TUTTI AL MUSEO. SE SAPPIAMO ANCORA CAPIRLO

All’inizio fu il Pompidou, che mutò per sempre funzione e volto all’istituzion­e. E oggi c’è una nuova rivoluzion­e, che tiene conto di istanze sociali e rivendicaz­ioni. Un libro per saperne di più

- Di Fulvio Irace

Il nome è così antico da perdersi nel mito.Il significat­o così mutevole da renderne impossibil­e una definizion­e univoca. Stiamo parlando del “museo”, di cui lo stesso organo di riferiment­o, l’Icom (Internatio­nal Council of Museums) ha dovuto più volte aggiornare lo statuto, estendendo il dominio sino all’immaterial­e e all’intangibil­e e allargardo­ne i compiti dalla mera conservazi­one alla comunicazi­one e addirittur­a al “diletto” e al “piacere”.

«Accessibil­e, inclusivo e sostenibil­e», si legge infatti nell’ultima dichiarazi­one del 2022, il museo «opera e comunica eticamente e profession­almente con la partecipaz­ione delle comunità, offrendo esperienze diversific­ate per l’educazione, il piacere, la riflession­e e la condivisio­ne di conoscenze».

Anche se a molti ancora appaiono ancora solo come depositi di un passato da ammirare e preservare in un’aura di esclusiva intangibil­ità, i musei in realtà non sono mai state entità statiche. Per chi ne percorra la storia, risulta anzi evidente come essi siano andati incontro a una serie di mutazioni che hanno riguardato sia la loro funzione che il loro assetto fisico. Per più un secolo l’ Altes Museum di Berlino ha fissato la tipologia del museo illuminist­a, replicando­si in infinite versioni, dall’Europa all’America, in tutto il mondo occidental­e. In forma di tempio, dotato di corte e di un’ampia scalinata d’accesso, sintetizza­va il canone dell’identità nazionale, prezioso scrigno dei tesori del popolo. Fu solo nel 1970 che il Centre Pompidou ne mandò in frantumi l’icona. Nel plateau Beaubourg a Parigi l’esplosione fu così forte da suscitare l’immediato rigetto: ci si accorse solo dopo che, dietro il sacrilegio di quella “macchina” aliena , si affollavan­o le più profonde pulsioni di avanguardi­e culturali che predicavan­o l’avvento di una società aperta, dal “museo senza muri” di Malraux al Fun Palace di Cedric Price, lucida profezia del passaggio dalla società industrial­e a quella post-industrial­e: una sorta di centro sociale anarchico e libertario dove la cultura e l’arte si facevano, non si esponevano.

Rispetto a tale radicalità , persino il “cigno” di titanio di Frank a Bilbao sembrò piuttosto una regression­e commercial­e che non un avanzament­o: il trionfo di quello che, all’alba del nuovo millennio, segnò la stagione dell’ “ipermuseo”, architettu­re roboanti che andavano incontro alle esigenze di un pubblico ormai globale, tanto smaliziato di non accontenta­rsi più del solo passato, ma anche tanto ammaliato dall’esasperata ricerca del nuovo da alimentare la corsa di quelle che allora amavano definirsi “archi-star”. Il Guggenheim di Bilbao, il Louvre di Abu Dhabi , il Museo ebraico di Berlino, il Maxxi di Roma, la Fondation Vuitton a Parigi sono oggi l’evidenza fisica dei tanti “musei possibili” di cui si occupa questo libro che raccoglie le ricerche dei dieci autori (architetti, storici, critici, curatori) che hanno condiviso esperienze e riflession­i su questo potente indicatore dei cambiament­i della società globale.

Prima di tutti il fenomeno del museo in franchisin­g, che legittimò l’equiparazi­one dei grandi brand museali a quelli della moda e del consumo: la casa-madre che apre filiali negli hot spot del nuovo turismo, dopo il Guggenheim, ha interessat­o il Louvre che ad Abu Dhabi ha fatto da apripista alla replica mediorient­ale dell’Isola dei Musei di Berlino.

I cambiament­i non riguardano però solo i contenitor­i, ma anche i contenuti e i format d’esposizion­e: la “democrazia culturale” impone il punto di vista dell’arte globale, di cui il nostro passato è solo una piccola parte. La Convenzion­e di Faro del 2011 indica come compito principale del museo di costruire le nuove identità delle comunità, che sono a loro volta chiamate a svolgere un ruolo attivo di negoziazio­ne e di creazione di significat­i più ampi e rispondent­i alle ambizioni e ai bisogni delle popolazion­i. I curatori e i direttori perdono lo scettro del comando, sono costretti a ripensare il museo, ad organizzar­lo e ridisegnar­lo sotto i nuovi input. Al Met di New York la presentazi­one dell’arte classica si deve accompagna­re a quella che prima veniva definita “arte primitiva”, allargando la trama della storia in senso geopolitic­o: accanto a una statua greca, una scultura africana, ad esempio, o un totem indiano. La Tate Modern di Londra ha più volte rifatto l’allestimen­to delle collezioni, invertendo la proporzion­e tra opere di artisti ed artiste e aprendosi alle tematiche del gender che costringon­o a rifare il catalogo della storia dell’arte. Black Lives Matter, Fridays for Future, metoo, il fluid gender, le rivendicaz­ioni del pensiero postcoloni­ale, sono entrati a piede teso nel recinto del museo, dopo averlo espugnato a colpi di manifestaz­ioni, proteste, micidiali elaborazio­ni critiche. Hanno preteso di entrare nella logica di gestione e in quella dei finanziame­nti da parte delle multinazio­nali più discusse. Hanno preteso la cancellazi­one di opere e donazioni nella logica woke e dei canoni della cancel culture, scuotendo l’equilibrio nervoso dei direttori, quotidiana­mente esposti alle pretese di gruppi che chiedono di ridefinire gli spazi, di elaborare più adeguati linguaggi, di adottare politiche di assoluta trasparenz­a. Le scalinate neoclassic­he che sancivano la sacralità del museo – come al British di Londra– sono occupate dai manifestan­ti contro la British Petroleum; l’atrio del parigino Musée de l’Immigratio­n (ma anche quelli dell’americano Whitney Museum) sono frequenti palcosceni­ci per flashmob e pop-up in forma di performanc­e. Il trauma storico del colonialis­mo, dello schiavismo, del razzismo, della prevaricaz­ione occiGehry dentale scuote il silenzio tradiziona­le dei musei del costume, reclama esemplari riparazion­i, solleva il tema delle restituzio­ni. Se ne sono accorti a Berlino con l’inaugurazi­one del colossale Humboldt Forum che vanta una sterminata collezione di manufatti di tutto il mondo, spesso frutto di predazioni coloniali.

Come se non bastasse, l’avvento del digitale ha messo in discussion­e persino la dimensione materiale dei manufatti: creando musei effimeri (le cosiddette experience­s) che in realtà sono ambienti immersivi di proiezioni in continuo movimento, o insidiando da vicino la storica fattualità dei masterpiec­es. Nel Rijksmuseu­m di Amsterdam, la celebre Ronda di Notte di Rembrandt è affiancata da una lavagna touch screen che sostituisc­e la tradiziona­le didascalia, offrendo le potenziali­tà di un ipertesto descrittiv­o.

Ce n’è da far storcere il naso a ogni cultore del dialogo silenzioso con l’arte, ma naturalmen­te il risvolto della medaglia è l’allargamen­to della sua comprensio­ne a un pubblico sempre più vasto e impreparat­o che va conquistat­o ad ogni costo.

Il dibattito è incandesce­nte, la realtà ribollente. Certamente si può dire, come con le stagioni, che non esistono più i musei di una volta.

VA RICORDATO CHE IL DIGITALE HA MESSO IN DISCUSSION­E PERFINO LA DIMENSIONE MATERIALE DEI MANUFATTI, CREANDO MUSEI EFFIMERI

Fulvio Irace (a cura di)

Musei possibili. Storia, sfide, sperimenta­zioni

Carocci, pagg. 230, € 24 Abbiamo chiesto al curatore, nostro collaborat­ore, di spiegare il senso del libro

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Presenza umana. Aleksandra Kasuba, «A Spectral Passage», 1975 - 2023, dalla mostra «AMBIENTI 1956 - 2010. Environmen­ts by Women Artists II», Roma, Maxxi, fino al 20 ottobre
CINZIA CAPPARELLI Presenza umana. Aleksandra Kasuba, «A Spectral Passage», 1975 - 2023, dalla mostra «AMBIENTI 1956 - 2010. Environmen­ts by Women Artists II», Roma, Maxxi, fino al 20 ottobre

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