TRE INTELLIGENZE PER IL PROSSIMO MONDO
Il curatore della Biennale Architettura ci spiega le linee guida, e il titolo, che ha scelto per l’edizione 2025. «Intelligens» suggerisce la necessità di interazione per trasformare la città, le persone, la società
Da mesi, soprattutto dopo il rilascio della versione 4.0 di ChatGPT, non c’è giornale o rivista che non si occupi delle potenzialità rivoluzionarie dell’Intelligenza artificiale (IA). Apocalittici e integrati concordano su un punto: l’avvenire dell’umanità, catastrofico o paradisiaco che sia, dipenderà in primo luogo dal futuro dell’IA. Mi permetto di dissentire.
Non vorrei sminuire l’importanza delle innovazioni in corso, che stanno raggiungendo un pubblico sempre più vasto. Sono convinto che l’IA trasformerà molti aspetti delle nostre vite, continuando quel trend iniziato con Internet qualche decennio fa. Sono anche convinto del fatto che non dobbiamo sottovalutare i potenziali rischi di queste nuove tecnologie.
Tuttavia, ChatGPT, più che un sistema intelligente, sembra oggi un “idiot savant” – un idiota sapiente capace di ricordare tutto di tutti e di rigurgitarlo in forme più o meno elaborate. Insomma, non un pensiero nuovo ma un riassemblaggio di materiali esistenti, riproposti seguendo lo stile ora dell’uno ora dell’altro.
Tornano alla memoria alcuni passaggi di Italo Calvino – come il racconto fantasioso (e distopico) La memoria del mondo, in cui si descrive una società impegnata a creare un archivio onnicomprensivo del presente. O il saggio Cibernetica e Fantasmi, citato da Andrea Principe e Massimo Sideri nel loro recente Il visconte cibernetico, nel quale Calvino immaginava «una macchina scrivente, in cui sia stata immessa un’istruzione confacente al caso, (che) potrà elaborare sulla pagina una personalità di scrittore spiccata e inconfondibile, oppure potrà essere regolata in modo di evolvere o cambiare personalità a ogni opera che compone».
Ma torniamo a noi, invece di divagare con ChatGPT. Inquadrare il destino dell’umanità come dipendente da un solo tipo di intelligenza – quella artificiale – ci fa dimenticare il contributo di altre intelligenze, in particolare di quelle intelligenze incarnate (“embodied intelligence”), legate allo spazio fisico. Sono esse che hanno ispirato il tema della prossima Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia (2025), intitolata: «Intelligens». Declinando il verbo latino intelligere scorgiamo, nelle ultime lettere della parola, il sostantivo gens, ovvero “popolo” in italiano. A ricordarci, o piuttosto a evocare, in quella coincidenza di suoni, la necessità di un’intelligenza plurale. Un’intelligenza che possiamo definire come la capacità dei viventi di rispondere alle condizioni dell’ambiente esterno a partire da un bagaglio di risorse, conoscenze e potere limitati. Ovverosia ciò che da migliaia di anni è prerogativa dell’architettura.
Sarebbe però sbagliato ridurre il tutto a una questione di ritorno alle origini. L’intelligenza odierna deve infatti rispondere a sfide senza precedenti, come quella climatica. Diversi indicatori suggeriscono che quest’ultima potrebbe aver subito una grave e imprevista accelerazione negli ultimi 12-18 mesi. In filigrana al report pubblicato lo scorso marzo dall’Organizzazione meteorologica mondiale (Wmo) si legge lo sconcerto degli scienziati di fronte a variabili come le temperature degli oceani, salite in modo molto più rapido di quanto atteso.
Questo mette ulteriormente sotto pressione l’architettura, tra i primissimi responsabili del rilascio di emissioni nell’atmosfera. Ecco allora la necessità, per parlare di futuro, di avere una visione multipla e di appellarsi a diverse intelligenze, andando oltre la sola IA.
In questo senso, la mostra dell’anno prossimo si propone di ricomporre alcune fratture che dilaniano oggi il nostro mondo professionale. Quest’ultimo si trova spesso spaccato in tre. C’è chi si occupa del verde, c’è chi si occupa di tecnologia, c’è chi si occupa di persone. Sono tre linee di pensiero che hanno prodotto grande innovazione ma che non interagiscono come dovrebbero e potrebbero. Mettendole insieme avremmo l’opportunità di ripensare il rapporto tra uomo e ambiente – a partire dalla crisi climatica.
La prima linea di pensiero ci parla di Intelligenza Naturale. Sappiamo che uno dei pilastri della pianificazione nel Novecento – scaturito, tra gli altri, dall’utopia della città giardino di Ebenezer Howard – è stata l’idea secondo cui le metropoli si sarebbero dovute espandere verso la campagna. Sappiamo che quel paradigma ha generato esiti indesiderabili: consumo di suolo e distruzione della natura. Dobbiamo allora oggi inseguire il principio opposto: riportare la natura nel cuore delle nostre città. In aggiunta, possiamo approfondire le ricerche sui materiali di origine organica (utili per inseguire obiettivi di decarbonizzazione) oppure sulle strategie di biomimesi (progetti adattivi ispirati a soluzioni in arrivo dal mondo vegetale o animale).
La seconda linea di pensiero, che Mario Rasetti – professore emerito di Fisica Teorica al Politecnico di Torino – ci suggeriva di chiamare, in inglese, “Machine Intelligence”, dialoga da vicino con la scienza dei dati, provando a integrare tecnologie computazionali con l’ambiente costruito. Questo secondo movimento, riprendendo le teorie dei primi cibernetici sulla continuità tra sistemi viventi e inanimati basati su meccanismi di feedback, punta a trasformare la città in un organismo che assume caratteristiche degli esseri viventi. Sono alcuni dei temi esplorati nella mostra «Natures Urbaines», curata da Antoine Picon e inaugurata poche settimane fa al Pavillon de l’Arsenal di Parigi.
La terza linea di pensiero mette al centro la dimensione collettiva e il fatto che la maggior parte della produzione edilizia oggi non deriva dal lavoro degli architetti. L’abbiamo chiamata, appunto, Intelligenza Collettiva, ed è un filone con molte anime. Per esempio, si muove alla riscoperta dell’architettura vernacolare, cogliendo le lezioni che questa ci offre per affrontare le avversità del clima. Oppure valorizza le cosiddette “città informali” provando a migliorare le condizioni di vita dei loro abitanti – di solito tra i più esposti ai cambiamenti climatici. O ancora, guarda con interesse alla partecipazione attiva degli utenti nei processi di design urbano.
Salvo alcune virtuose eccezioni, il dialogo tra i tre macro-filoni appena citati è oggi frammentato. Per il futuro prossimo diventerà necessario cercare non soltanto sinergie, ma una vera e propria convergenza tra di essi.
In altre parole, ci troviamo di fronte alla necessità di ripensare il ruolo dell’architettura: costruire meno e cambiare il modo in cui lo facciamo. Abbiamo bisogno di critica ma abbiamo ancora più bisogno di soluzioni. O meglio, di esperimenti che possano poi, attraverso cicli di prova ed errore, trasformarsi in soluzioni. È una sfida sistemica in cui l’architettura gioca un ruolo centrale, collaborando con tutte le discipline che si interessano dell’ambiente costruito.
L’ARCHITETTURA è CENTRALE NEL COSTRUIRE MENO E CAMBIARE IL MODO IN CUI LO FACCIAMO: SERVONO CRITICA E SOLUZIONI