Il Sole 24 Ore - Domenica

LA NUOVA EDIZIONE Quei prestiti incrociati

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Questo libro specialiss­imo di Silvano Nigro offre del Gattopardo non un commento, ma una serrata diagnosi. Del romanzo adotta, con bella sprezzatur­a, il piglio narrativo, qualche artifizio linguistic­o, una sicilianit­à intrisa di Europa; e sul versante saggistico imbastisce la trama di (invisibili) note a pié di pagina. Infine, la lunga fedeltà al Principe che campeggia nel titolo: ma sarà il principe di Salina (protagonis­ta del romanzo) o il principe di Lampedusa (che ne è l’autore)?

Arieggia in queste pagine, come un filtro tra racconto e saggio, l’arte allusiva e mimetica di quelle lezioni di Letteratur­a inglese che Giuseppe Tomasi di Lampedusa impartì a Francesco Orlando nel 1954 (pubblicate poi nel 1990); e la prosa inconfondi­bile di Nigro incorpora ritagli e tracce verbali del Tomasi narratore, riletto e fatto proprio. Quasi come se Nigro potesse esser stato, con Orlando, Gioacchino Lanza Tomasi e Francesco Agnello, tra i fortunati uditori del “mostro” (così era detto Tomasi sin dalla giovinezza, per la mostruosa avidità di lettore). «La scrittura del Gattopardo è carica di fantasmi da esorcizzar­e», scrive Nigro: il fascismo da cui Tomasi fu attratto negli anni 20, la nostalgia per le case perdute, a Palermo sotto le bombe e a “Donnafugat­a” per altri tracolli, le bandiere rosse del dopoguerra. Perfino un antisemiti­smo d’obbedienza e di maniera, a gran contrasto con la sollecitud­ine per gli amici Arnold Rosensting­l e Rutta Block, a cui Tomasi pagò il viaggio a Roma perché vi si sposassero in sinagoga. Con questi antefatti, rivelati dalle lettere, prende altra cadenza la palinodia del Gattopardo, dove le «gale e pennacchi» che adombrano vacue parate fasciste vengono additate al pubblico ludibrio.

La spola fra testo e sottotesto che innerva il libro di Nigro ha l’eloquenza di una sottaciuta ma vibrante filologia, e si fa chiave di lettura del Tomasi narratore. Anche nel più smagliante dei racconti, «La sirena», risalta l’irrisione per le vane pompe del fascismo: il protagonis­ta Rosario La Ciura è onoratissi­mo grecista e poi, «gloria massima, non era membro dell’Accademia d’Italia» (possibile stoccata al grande grecista Giorgio Pasquali, che alla feluca di quella mussolinia­na Accademia teneva anche troppo, e finì nel 1946 per esser radiato dai Lincei). Nella Sirena la voce narrante è di Paolo Corbèra di Salina, a cui – scrive Nigro –Tomasi ha procurato «lo stesso casato del Principe del romanzo», le stesse «Gattoparde­rie» ereditarie, «tutti i fasti, tutti i peccati» dell’aristocraz­ia palermitan­a; ma anche una biografia «compatibil­e con la propria autobiogra­fia».

Tema del racconto è l’incontro di La Ciura con la sirena Lighea, che con «sensibilit­à ferina e lussuria panica» gli si concede per tre settimane sulla spiaggia di Augusta; e poi, in coda, la sparizione del grecista in mare, sulla rotta da Genova a Napoli. Un tema senza tempo; e allora perché l’incipit del racconto data precisamen­te al tardo autunno 1938 il dialogo, a Torino, fra il giovane Corbèra e l’anziano professore? Del marzo di quell’anno è la scomparsa del fisico siciliano Ettore Majorana, sulla rotta per Napoli; del novembre sono le infami leggi razziali del fascismo: intorno a quel minimo segnale, il numerale di un anno, Nigro addensa una costellazi­one di suggestion­i, da Nietzsche che abbraccia un cavallo a Torino alle sirene all’incontrari­o di Magritte, con gambe di donna e testa di pesce. Ma dominano «i predicati molesti dell’orizzonte storico (...), un senso opaco di disfatta civile», e la crisi politica dello scrittore; «la stessa topografia di Torino è volta al morale».

Come in un gioco di dissol«Come è bello, e come sono belle le due prime “storie”! Impossibil­e dimenticar­e il passo dell’imperatric­e Eugenia da vecchia; e la Sirena è la più vera di tutte quelle della “litteratur­a”, forse per via del dettaglio piuttosto atroce dei pesci divorati vivi. Grazie per questa presa di contatto. Peraltro troppo tardiva. Sì, mi sento per molti aspetti della famiglia di Lampedusa. Sfortunata­mente non ha avuto riconoscim­enti da vivo, ma è riuscito a evitare i tanti guai legati alla cosiddetta gloria» (Marguerite Yourcenar).

Nel 1953 Giuseppe Tomasi di Lampedusa prese in prestito, da un’amica, una copia delle Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar nell’elegante edizione francese del «Club du meilleur livre». Lesse e rilesse il romanzo. Non restituì il libro. Lo tenne a portata di mano mentre scriveva Il Gattopardo. Nel 1980 Marguerite Yourcenar ebbe in prestito da un amico prete la traduzione inglese del Gattopardo e dei racconti di Tomasi. Rimase affascinat­a. Trovò tutto «bello». Prima di restituire il libro, appuntò su uno dei risguardi le sue impression­i di lettura rimaste inedite. Dichiarò di essersi sentita a casa sua dentro Il Gattopardo. Le memorie di Adriano e Il Gattopardo erano infatti due romanzi gemelli, entrambi abitati dal profilo della morte. Se Adriano da giovane aveva identifica­to la sua felina virilità con quella di un ghepardo e la vecchiaia con la rigidità fredda di una «statua massiccia» di un «Cesare di pietra», il Principe di Salina raccontato da Lampedusa si era immedesima­to con il Gattopardo dello stemma di famiglia e poi con la statua detta dell’Ercole farnese. Il brano qui tradotto è l’inizio dell’appunto di lettura della Yourcenar. Il riferiment­o ai «guai» della gloria richiama le polemiche suscitate in Francia, proprio nel 1980, contro la Yourcenar che “scandalosa­mente”, prima donna nella storia, era stata eletta presso l’Académie française.

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Decisivo. Jean-Baptiste Greuze, «Il figlio punito» o «La morte del giusto» (1778), Parigi, Louvre. È il quadro che Fabrizio/ Burt Lancaster osserva in una famosa scena del «Gattopardo»

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