NELLA SCONFITTA SI COGLIE IL SENSO DELLO SPORT
L’antropologo Philippe Descola, professore al Collège de France, ha studiato per anni la popolazione achuar dell’Amazzonia ecuadoriana. Ha così seguito il passaggio tra i vecchi giochi praticati da sempre, in particolare la pallavolo, e l’affermarsi di uno sport nazionale come il calcio professionistico che si svolge in campionati competitivi a livello nazionale.
La pallavolo tradizionale si gioca in tre. Basta tendere una liana tra due alberi e munirsi di un pallone. Descola racconta di aver portato negli anni molti palloni agli achuar perché potessero giocarci. Così l’antropologo ha potuto notare che lo scopo del gioco non è la vittoria di una squadra sull’altra. Questo stile si è trasferito a una sorta di calcio non competitivo: tutti corrono dietro alla palla, compreso il portiere. In questo modo si ha il vantaggio che il numero dei partecipanti è fluttuante. Non ha nessuna importanza che siano cinque da un lato e dieci dall’altro: quel che conta è giocare insieme, segnare i gol. Già Lévi-Strauss aveva notato, in un testo che commentava il gioco con la palla tra i gahuku-gama in Nuova Guinea, che ciò che era più rilevante era il fatto che non dovessero esserci disuguaglianze alla fine della partita.
In alcune circostanze, l’effetto delle disuguaglianze è particolarmente negativo. Max Wertheimer, nel suo Il pensiero produttivo pubblicato nel 1945 negli Stati Uniti dove era stato costretto a emigrare, descrive le condizioni in cui la collaborazione subentra alla competizione nel corso di un’attività ludica.
Due persone si mettono a giocare a volano: all’inizio ognuno cerca di fare più punti dell’avversario come in una sfida tradizionale. Ben presto, però, si accorgono che uno dei due giocatori è molto più bravo e vince subito. Non c’è gusto a continuare così: l’esito dello scontro è immediato e la sfida diventa noiosa. Allora decidono un cambio di gioco. Adesso si tratta di fare scambi più a lungo possibile e il giocatore provetto aiuta l’inetto a rispondere. Un’osservazione che si collega al tema più generale del libro di Wertheimer perché giocando insieme si crea divertimento reciproco, con meno competizione: si «produce un di più». Questo «di più» non emerge se lo scontro è a «somma zero»: i punti guadagnati da un giocatore sono persi dall’altro e viceversa. Certo, non sempre ci si può fidare della collaborazione altrui nel corso di un’attività comune, soprattutto quando non si tratta di uno sport. In tal caso si può passare a un equilibrio basato sul terrore reciproco, quello che i militari chiamano «deterrenza».
Il futuro premio Nobel Thomas Schelling sconsiglierà il tentativo di cercare di raggiungere un accordo volto al disarmo delle due potenze nucleari del dopo-guerra. Meglio una deterrenza basata su un numero tale di ordigni termonucleari da garantire la distruzione reciproca. Questa strategia verrà suggerita quando i militari americani, dopo il lancio delle prime atomiche, gli chiesero che cosa andasse fatto per evitare un terzo conflitto mondiale. Nel recente film Oppenheimer si mostra che lo scienziato che aveva capeggiato la costruzione della prima atomica auspicava un accordo volto al disarmo reciproco. Purtroppo non aveva colto che le due potenze mondiali, Usa e Urss, non si fidavano l’una dell’altra.
Passando all’esame degli sport contemporanei, Descola si chiede: «Lo sport è un gioco?», meglio: «È ancora un gioco?». Le differenti risposte a questa domanda possono diventare un criterio per classificare le varie culture. Nelle società non industriali il confine tra un gioco e lo sport è poroso nel senso che l’agonismo non è ancora accompagnato da misurazioni che permettano un punteggio cumulativo delle rispettive prestazioni. Quando però entra in campo un terzo incomodo, lo spettatore, lo sport diventa una gara che deve attrarre l’attenzione di quanti più tifosi è possibile. Cruciale è la fase in cui il livello di attenzione del pubblico viene «monetizzato» dalle televisioni e dai media che prosperano
PER PHILIPPE DESCOLA CRUCIALE è LA FASE IN CUI IL LIVELLO DI ATTENZIONE DEL PUBBLICO VIENE MONETIZZATO
grazie agli inserti pubblicitari. Di qui il successo degli sport «popolari» che sono spesso facili da seguire e, nel contempo, i più appassionanti e competitivi.
Descola ricorda che lo scopo diventa la sconfitta dell’avversario, recuperando l’aspetto gladiatorio, talvolta spietato, delle lotte tra schiavi. Un po’ alla volta, quella che era un semplice criterio di misura di una singola prestazione sportiva si trasforma in un punteggio che evidenzia il graduale avvicinamento a un traguardo. Lo scopo diventa avere più punti per arrivare alla vittoria in una competizione con molti concorrenti. Seguire le vicende delle squadre in un campionato diventa intrattenimento puro, lasciando sullo sfondo lo sport come strumento di formazione. Descola osserva che tale era, per esempio, nei collegi britannici dove venivano educate le classi dirigenti. Una potenza coloniale doveva preparare i giovani a fronteggiare situazioni difficili, se non ostili. Un capo, anche se isolato, cerca comunque di dare il meglio, proprio come quando si corre solitari per vincere contro sé stessi. Il contrario, ricorda Descola, di quel che avviene in questo crescendo inarrestabile: gioco non competitivo, sport con prestazioni misurate, punteggio come traguardo, spettacolo. Infine: monetizzazione dell’attenzione degli spettatori, diventati tifosi e attirati dalla competizione.
Philippe Descola Lo sport è un gioco? Raffaello Cortina, pagg. 74, € 11