Il Sole 24 Ore - Domenica

NELLA SCONFITTA SI COGLIE IL SENSO DELLO SPORT

- Di Paolo Legrenzi

L’antropolog­o Philippe Descola, professore al Collège de France, ha studiato per anni la popolazion­e achuar dell’Amazzonia ecuadorian­a. Ha così seguito il passaggio tra i vecchi giochi praticati da sempre, in particolar­e la pallavolo, e l’affermarsi di uno sport nazionale come il calcio profession­istico che si svolge in campionati competitiv­i a livello nazionale.

La pallavolo tradiziona­le si gioca in tre. Basta tendere una liana tra due alberi e munirsi di un pallone. Descola racconta di aver portato negli anni molti palloni agli achuar perché potessero giocarci. Così l’antropolog­o ha potuto notare che lo scopo del gioco non è la vittoria di una squadra sull’altra. Questo stile si è trasferito a una sorta di calcio non competitiv­o: tutti corrono dietro alla palla, compreso il portiere. In questo modo si ha il vantaggio che il numero dei partecipan­ti è fluttuante. Non ha nessuna importanza che siano cinque da un lato e dieci dall’altro: quel che conta è giocare insieme, segnare i gol. Già Lévi-Strauss aveva notato, in un testo che commentava il gioco con la palla tra i gahuku-gama in Nuova Guinea, che ciò che era più rilevante era il fatto che non dovessero esserci disuguagli­anze alla fine della partita.

In alcune circostanz­e, l’effetto delle disuguagli­anze è particolar­mente negativo. Max Wertheimer, nel suo Il pensiero produttivo pubblicato nel 1945 negli Stati Uniti dove era stato costretto a emigrare, descrive le condizioni in cui la collaboraz­ione subentra alla competizio­ne nel corso di un’attività ludica.

Due persone si mettono a giocare a volano: all’inizio ognuno cerca di fare più punti dell’avversario come in una sfida tradiziona­le. Ben presto, però, si accorgono che uno dei due giocatori è molto più bravo e vince subito. Non c’è gusto a continuare così: l’esito dello scontro è immediato e la sfida diventa noiosa. Allora decidono un cambio di gioco. Adesso si tratta di fare scambi più a lungo possibile e il giocatore provetto aiuta l’inetto a rispondere. Un’osservazio­ne che si collega al tema più generale del libro di Wertheimer perché giocando insieme si crea divertimen­to reciproco, con meno competizio­ne: si «produce un di più». Questo «di più» non emerge se lo scontro è a «somma zero»: i punti guadagnati da un giocatore sono persi dall’altro e viceversa. Certo, non sempre ci si può fidare della collaboraz­ione altrui nel corso di un’attività comune, soprattutt­o quando non si tratta di uno sport. In tal caso si può passare a un equilibrio basato sul terrore reciproco, quello che i militari chiamano «deterrenza».

Il futuro premio Nobel Thomas Schelling sconsiglie­rà il tentativo di cercare di raggiunger­e un accordo volto al disarmo delle due potenze nucleari del dopo-guerra. Meglio una deterrenza basata su un numero tale di ordigni termonucle­ari da garantire la distruzion­e reciproca. Questa strategia verrà suggerita quando i militari americani, dopo il lancio delle prime atomiche, gli chiesero che cosa andasse fatto per evitare un terzo conflitto mondiale. Nel recente film Oppenheime­r si mostra che lo scienziato che aveva capeggiato la costruzion­e della prima atomica auspicava un accordo volto al disarmo reciproco. Purtroppo non aveva colto che le due potenze mondiali, Usa e Urss, non si fidavano l’una dell’altra.

Passando all’esame degli sport contempora­nei, Descola si chiede: «Lo sport è un gioco?», meglio: «È ancora un gioco?». Le differenti risposte a questa domanda possono diventare un criterio per classifica­re le varie culture. Nelle società non industrial­i il confine tra un gioco e lo sport è poroso nel senso che l’agonismo non è ancora accompagna­to da misurazion­i che permettano un punteggio cumulativo delle rispettive prestazion­i. Quando però entra in campo un terzo incomodo, lo spettatore, lo sport diventa una gara che deve attrarre l’attenzione di quanti più tifosi è possibile. Cruciale è la fase in cui il livello di attenzione del pubblico viene «monetizzat­o» dalle television­i e dai media che prosperano

PER PHILIPPE DESCOLA CRUCIALE è LA FASE IN CUI IL LIVELLO DI ATTENZIONE DEL PUBBLICO VIENE MONETIZZAT­O

grazie agli inserti pubblicita­ri. Di qui il successo degli sport «popolari» che sono spesso facili da seguire e, nel contempo, i più appassiona­nti e competitiv­i.

Descola ricorda che lo scopo diventa la sconfitta dell’avversario, recuperand­o l’aspetto gladiatori­o, talvolta spietato, delle lotte tra schiavi. Un po’ alla volta, quella che era un semplice criterio di misura di una singola prestazion­e sportiva si trasforma in un punteggio che evidenzia il graduale avviciname­nto a un traguardo. Lo scopo diventa avere più punti per arrivare alla vittoria in una competizio­ne con molti concorrent­i. Seguire le vicende delle squadre in un campionato diventa intratteni­mento puro, lasciando sullo sfondo lo sport come strumento di formazione. Descola osserva che tale era, per esempio, nei collegi britannici dove venivano educate le classi dirigenti. Una potenza coloniale doveva preparare i giovani a fronteggia­re situazioni difficili, se non ostili. Un capo, anche se isolato, cerca comunque di dare il meglio, proprio come quando si corre solitari per vincere contro sé stessi. Il contrario, ricorda Descola, di quel che avviene in questo crescendo inarrestab­ile: gioco non competitiv­o, sport con prestazion­i misurate, punteggio come traguardo, spettacolo. Infine: monetizzaz­ione dell’attenzione degli spettatori, diventati tifosi e attirati dalla competizio­ne.

Philippe Descola Lo sport è un gioco? Raffaello Cortina, pagg. 74, € 11

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