LA BALLATA NARCOS CHE SALVA IL FESTIVAL
Un’edizione che si appoggiata troppo sui soliti noti, tranne nel caso del musical di Audiard e lo stravagante «Grand Tour» Miguel Gomes. Struggente Jia Zhang-ke, mentre Sorrentino illumina con la sua bellezza insistente e ricercata
Sebbene premiato, a sorpresa, con la Palma (Dheepan, 2015) Jacques Audiard non è mai stato regista da Festival. Più apprezzato dal pubblico che dalla critica che spesso gli ha messo in conto il suo pregio: frequentare generi diversi con sicuro mestiere in barba a ogni purezza cinefilica. Eppure è toccato in sorte all’audacia e allo slancio di questo settantenne dare un vitale scossone a un Concorso sonnolento. Emilia Perez è una sorprendente incursione nell’universo dei narcotrafficanti messicani, modulata sulle note di un melodramma musicale, in cui un aggressivo boss, con l’aiuto di una brillante avvocatessa, si trasforma in donna, si redime e fonda una Ong per il recupero dei corpi dei desaparecidos.
Felicemente straniante rispetto al realismo, ricco di sottotrame ora bizzarre ora toccanti, sorretto dall’interpretazione dell’attrice trans argentina Karla Sofia Gascon, in grado di tenere insieme durezza e vulnerabilità, Emilia Perez è un piccolo capolavoro. Ironico e autironico, liberatorio e ossigenante, il film si permette un sottotesto impegnativo: cambiare il corpo è anche cambiare la società.
Di segno opposto ma altrettanto accorto nell’uso della componente musicale Caught by the Tides è l’ultimo film di Jia Zhang-ke (Still life). Con l’aiuto di poche parole e molte canzoni, tradizionali e occidentalizzanti, il regista cinese più raffinato della sua generazione connette materiale raccolto agli inizi del secolo con immagini dell’epoca del Covid per raccontare la lunga odissea di una ballerina (Zhao Tao) alla ricerca dell’uomo che l’ha abbandonata. Le sequenze di natura spuria, porte scorrevoli nel tempo, si prestano a combinare lo struggente senso di perdita dei singoli con quello collettivo del Paese, rendendo il torto subito dalla protagonista parte dei torti più grandi della Storia.
Usciti di scena, non senza imprevisti acciacchi, Coppola (Megalopolis) e Lanthimos (Kind of kindness), Sorrentino resta il faro dal getto di luce più ampio. Lo shining di Parthenope illumina, anche se a tratti acceca, come accade quando la bellezza è insistentemente ricercata e imposta come forma d’inquietudine. Ma si può rimproverare la maniera a un regista che traendo forza dai primi successi ha acquisito la libertà di rivolgersi allo spettatore al di fuori dagli assi cartesiani del racconto e persino il diritto di compiacersi? Il flusso d’immagini che avvolge in una spirale vertiginosa Parthenope, donna-sirena il cui corpo garantisce la perennità dell’anima di Napoli, piena di vita ma disillusa, malinconica ma ironica, è impetuoso e quindi trascinante. A irritare sono casomai gli aforismi con cui la protagonista troppo spesso s’esprime. Non a caso la rendono mimetica a Jepp Gambardella: stessa mancanza d’eroismo e stessa densità di sottili emozioni.
Chiamato a portare sullo schermo il teppista letterato, eroe e canaglia, l’Eddy Limonov dello smaliziato romanzo di Carrère, Kirill Serebrennikov se la cava con una ballata, forma ideale per rievocare colpi d’ala e sbandate dell’itinerario esistenziale del controverso personaggio, evitando i toni del disprezzo e dell’empatia. Ma se nei suoi film precedenti aveva saputo giocare sulle impetuosità della frenetica anima russa, in Limonov, la ballata il regista, già dissidente, si limita qui alla coscienziosa esecuzione di uno spartito dalle tonalità incolori in netto contrasto con l’incandescenza del soggetto. C’è da chiedersi cosa ne avrebbe fatto Pawel Pawlikowski sceneggiatore a cui era stato inizialmente affidato il progetto.
La trasformazione del corpo è un tema letterario che il cinema ha fatto suo per le sue stesse proprietà transustanziali. Il body-horror The substance della francese Coralie Fargeat (Revenge) e il tech-horror The shrouds del veterano Cronenberg ne danno una diversa ma convergente lettura. Nel primo Demi Moore si tramuta in Margaret Qualley grazie a un prodotto che garantisce la rifioritura di forza e bellezza tramontanti: immagini ultra-patinate e dialoghi urlati, ma anche una veemenza della messa in scena che sarebbe piaciuta a Roger Corman. Nel secondo, un Cronenberg pacato e autunnale racconta – con l’aiuto di Vincent Cassel e Diane Kruger – l’ossessione di un vedovo inconsolabile che attraverso un sudario digitale connesso riesce a osservare la decomposizione del cadavere della moglie. Un Concorso privo (a parte la sorpresa di Audiard e la passione civile di The seed of the sacred fig dell’iraniano Rasoulof) di folgorazioni, nonostante le aspettative. Troppi soliti noti. È mancato l’azzardo che non deve essere necessariamente sinonimo di inutile rischio ma di vitale passione per il nuovo. Ad attutire la sensazione di timidezza resta la presenza di Grand Tour del portoghese Miguel Gomes, epopea romantica, stravagante e suggestiva realizzata incrociando documento e finzione e l’indiano All imagine as Light, dramma quotidiano al femminile diretto da Payal Kapadia, dove il caos infernale di Mumbai si fronteggia con la libertà della foresta tropicale.