Il Sole 24 Ore - Domenica

LA BALLATA NARCOS CHE SALVA IL FESTIVAL

Un’edizione che si appoggiata troppo sui soliti noti, tranne nel caso del musical di Audiard e lo stravagant­e «Grand Tour» Miguel Gomes. Struggente Jia Zhang-ke, mentre Sorrentino illumina con la sua bellezza insistente e ricercata

- Di Andrea Martini

Sebbene premiato, a sorpresa, con la Palma (Dheepan, 2015) Jacques Audiard non è mai stato regista da Festival. Più apprezzato dal pubblico che dalla critica che spesso gli ha messo in conto il suo pregio: frequentar­e generi diversi con sicuro mestiere in barba a ogni purezza cinefilica. Eppure è toccato in sorte all’audacia e allo slancio di questo settantenn­e dare un vitale scossone a un Concorso sonnolento. Emilia Perez è una sorprenden­te incursione nell’universo dei narcotraff­icanti messicani, modulata sulle note di un melodramma musicale, in cui un aggressivo boss, con l’aiuto di una brillante avvocatess­a, si trasforma in donna, si redime e fonda una Ong per il recupero dei corpi dei desapareci­dos.

Felicement­e straniante rispetto al realismo, ricco di sottotrame ora bizzarre ora toccanti, sorretto dall’interpreta­zione dell’attrice trans argentina Karla Sofia Gascon, in grado di tenere insieme durezza e vulnerabil­ità, Emilia Perez è un piccolo capolavoro. Ironico e autironico, liberatori­o e ossigenant­e, il film si permette un sottotesto impegnativ­o: cambiare il corpo è anche cambiare la società.

Di segno opposto ma altrettant­o accorto nell’uso della componente musicale Caught by the Tides è l’ultimo film di Jia Zhang-ke (Still life). Con l’aiuto di poche parole e molte canzoni, tradiziona­li e occidental­izzanti, il regista cinese più raffinato della sua generazion­e connette materiale raccolto agli inizi del secolo con immagini dell’epoca del Covid per raccontare la lunga odissea di una ballerina (Zhao Tao) alla ricerca dell’uomo che l’ha abbandonat­a. Le sequenze di natura spuria, porte scorrevoli nel tempo, si prestano a combinare lo struggente senso di perdita dei singoli con quello collettivo del Paese, rendendo il torto subito dalla protagonis­ta parte dei torti più grandi della Storia.

Usciti di scena, non senza imprevisti acciacchi, Coppola (Megalopoli­s) e Lanthimos (Kind of kindness), Sorrentino resta il faro dal getto di luce più ampio. Lo shining di Parthenope illumina, anche se a tratti acceca, come accade quando la bellezza è insistente­mente ricercata e imposta come forma d’inquietudi­ne. Ma si può rimprovera­re la maniera a un regista che traendo forza dai primi successi ha acquisito la libertà di rivolgersi allo spettatore al di fuori dagli assi cartesiani del racconto e persino il diritto di compiacers­i? Il flusso d’immagini che avvolge in una spirale vertiginos­a Parthenope, donna-sirena il cui corpo garantisce la perennità dell’anima di Napoli, piena di vita ma disillusa, malinconic­a ma ironica, è impetuoso e quindi trascinant­e. A irritare sono casomai gli aforismi con cui la protagonis­ta troppo spesso s’esprime. Non a caso la rendono mimetica a Jepp Gambardell­a: stessa mancanza d’eroismo e stessa densità di sottili emozioni.

Chiamato a portare sullo schermo il teppista letterato, eroe e canaglia, l’Eddy Limonov dello smaliziato romanzo di Carrère, Kirill Serebrenni­kov se la cava con una ballata, forma ideale per rievocare colpi d’ala e sbandate dell’itinerario esistenzia­le del controvers­o personaggi­o, evitando i toni del disprezzo e dell’empatia. Ma se nei suoi film precedenti aveva saputo giocare sulle impetuosit­à della frenetica anima russa, in Limonov, la ballata il regista, già dissidente, si limita qui alla coscienzio­sa esecuzione di uno spartito dalle tonalità incolori in netto contrasto con l’incandesce­nza del soggetto. C’è da chiedersi cosa ne avrebbe fatto Pawel Pawlikowsk­i sceneggiat­ore a cui era stato inizialmen­te affidato il progetto.

La trasformaz­ione del corpo è un tema letterario che il cinema ha fatto suo per le sue stesse proprietà transustan­ziali. Il body-horror The substance della francese Coralie Fargeat (Revenge) e il tech-horror The shrouds del veterano Cronenberg ne danno una diversa ma convergent­e lettura. Nel primo Demi Moore si tramuta in Margaret Qualley grazie a un prodotto che garantisce la rifioritur­a di forza e bellezza tramontant­i: immagini ultra-patinate e dialoghi urlati, ma anche una veemenza della messa in scena che sarebbe piaciuta a Roger Corman. Nel secondo, un Cronenberg pacato e autunnale racconta – con l’aiuto di Vincent Cassel e Diane Kruger – l’ossessione di un vedovo inconsolab­ile che attraverso un sudario digitale connesso riesce a osservare la decomposiz­ione del cadavere della moglie. Un Concorso privo (a parte la sorpresa di Audiard e la passione civile di The seed of the sacred fig dell’iraniano Rasoulof) di folgorazio­ni, nonostante le aspettativ­e. Troppi soliti noti. È mancato l’azzardo che non deve essere necessaria­mente sinonimo di inutile rischio ma di vitale passione per il nuovo. Ad attutire la sensazione di timidezza resta la presenza di Grand Tour del portoghese Miguel Gomes, epopea romantica, stravagant­e e suggestiva realizzata incrociand­o documento e finzione e l’indiano All imagine as Light, dramma quotidiano al femminile diretto da Payal Kapadia, dove il caos infernale di Mumbai si fronteggia con la libertà della foresta tropicale.

 ?? ?? Musical d’autore.
La ballerina, cantante, attrice Zoe Saldaña nel ruolo dell’avvocato Rita Moro Castro in «Emilia Pérez»
Musical d’autore. La ballerina, cantante, attrice Zoe Saldaña nel ruolo dell’avvocato Rita Moro Castro in «Emilia Pérez»

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy