CAMMINANDO «IL VERONELLI»
È nato vicino a Bergamo un contenitore (cantina, studio, biblioteca, archivio, spazio eventi) per diffondere e aumentare la conoscenza dell’opera di un “filosofo del cibo” di cui, oggi più che mai, serve, ed è attuale, la lezione
Voglio partire da due foto. Non da un libro, tra le centinaia, da un’etichetta, migliaia, da uno scritto, millanta. La prima foto è emblematica: Luigi Veronelli (19262004), diolabbiaingloria, è a torso nudo. Toni Thorimbert non si fa sfuggire il momento: nello studio fa caldo e il ritratto di “sua nasità” (così lo chiamava Gianni Mura) tarda a venire. Ma appena portano un bicchiere con vino, che forse fa parte della scenografia, Veronelli non resiste: si china, quasi inginocchia per l’ennesima “degustazione” olfattiva: naso nel bicchiere, ma rispetto della distanza, e l’evidente lavorìo che la mente sta mettendo in moto per trovare le parole. Le parole: il centro della vita di Luigi Veronelli: non qualcos’altro, non il vino, non la cucina, non la terra. Le parole, per dire tutto questo, con la massima precisione, cioè con la massima devozione. Lo scatto di Thorimbert eterna la sapienza di Veronelli, pratica e spirituale. Ecco perché è cosi decisivo, in qualche modo definitivo. E nessun colore, che i colori ci pensava Veronelli, a darli, e farli, nella smisurata preghiera che ingaggiava con il dizionario, la sua arma più potente.
L’altra foto: siamo nel “ricostruito” studio di Veronelli nell’impressionante complesso archeologico, storico, denso d’arte (e buona cucina) del Convento dei Neveri a Bariano (Bergamo). Già: fuori piove un mondo freddo, ma qui il tempo è sospeso. Ci aggiriamo, anzi, “camminiamo” «il Veronelli», luogo fisico, fantasmatico, che evoca la presenza, l’eminenza, la persistenza di un’opera che è filosofica: perché di questo si tratta, non di libri sul vino, articoli su riviste specializzate e no, gastronomia e cocktail, poesie e battaglie giornalistiche. Il patrimonio culturale di Veronelli qui è stato raccolto e appena inaugurato a beneficio della memoria e del futuro, che lui tanto aveva cercato: ci sono l’archivio, parte della sua biblioteca (quasi 6.500 volumi, per via di un ridicolo pericolo statico che non permetterebbe di assorbire il peso di un maggior numero di titoli...), la commovente cantina (quasi 12mila bottiglie, delle 70mila originali; annate tra gli anni 60 e i 90 del secolo scorso), etichette blasonate e sconosciute, vini imbevibili e signori dell’enologia, nelle celle di cemento gemelle di quelle che a suo tempo aveva escogitato per la casa di Bergamo, il suo tabarro, anarchico di spirito e presenza scenica; e c’è lo studio, cuore pulsante dell’attività di Veronelli. Ecco: sopra la scrivania, dove c’è sempre qualche bottiglia significativa (nel bene e nel male), l’agenda, i libri di consultazione e davanti a sua sicurezza il «Battaglia», fonte e deposito di espressività, Veronelli custodisce una foto che, per me, è un colpo al cuore. Ci sono Mario Soldati, gioanbrerafucarlo, Piero Camporesi e Veronelli medesimo. I quattro cavalieri della gastrocritica; i predicatori inesausti, i padri fondatori della religione anarchica del capire e parlare del cibo, cioè del rapporto dell’uomo con la natura. Lo scatto è fatto a un Premio Nonino, e non è un caso: riuniti nell’ “esotico” Friuli (parola di Levi Strauss), sono ad una manifestazione che celebra la civiltà contadina, la dignità contadina, il motore immobile dal quale nessuno ha mai deflettuto, capendo bene che il prodotto – qualsiasi prodotto enogastronomico degno di tale nome – viene dalla terra. «La terra. La terra. La terra», inno dello stesso Veronelli, la cui scrittura epigrammatica, quasi aforistica, era anche il tentativo, no la necessità, di una indispensabile convergenza: la prosa andava verso la poesia; perché ciò che andava detto (scritto) su ciò di cui meritava parlare era sacro: programma etico prima che giornalistico. E non è un caso, ancora, che nessuno di questi quattro angeli fosse un “cuciniere” o un sommelier, un “addetto ai lavori” insomma. No: ci volevano penne e ingegni di giornalisti alati, scrittori di gloria ricevuta, “accademici di nulla academia” (Camporesi), attenti alla storia culturale del cibo per capire – e trasmettere, in tutti i modi! – la complessa faccenda della cultura materiale, che non ha nulla di secondo a quella prettamente intellettuale. Perché questo è, essenzialmente: saper come far passare certi messaggi che sono celati in un bicchiere di vino, un sugo, una pietanza, un oggetto contadino, un formaggio coi vermi, un frutto bacato.
Veronelli questa cosa, nelle migliaia di pagine scritte, nell’ “ascolto” dei vini, nella ricerca delle imperfezioni (ché questo sono i vini, dopo tutto, entità imperfette che riflettono attitudini e caratteristiche di chi li ha creati, la natura e l’uomo – con il determinante apporto di sua maestà il Tempo), non si era mai dimenticato. I 50 anni di lavoro di scrittura e comunicazione di Veronelli sono capitoli di un magnum opus nel quale è evidente la dimostrazione che non si può parlare di cibo o vino senza avere conoscenze d’arte, letteratura, poesia, filosofia (esperto lo era, sì, di pensiero libertino), agricoltura, botanica, editoria, capacità di percezione della bellezza e della meraviglia, senza la quale le certezze tecniche restano poca cosa. Non ho mai sentito nessuno eccitarsi per la malolattica, la rifermentazione, la stabilità delle muffe: e quanto invece, emoziona farti sapere che nel sorso che bevi ci sono sentori non di lampone o magnolia, ma del lavoro, della fatica, del sudore del contadino («il peggior vino del contadino...»: era una massima veronelliana celebre e forse non riuscita, se non intesa per bene: ché di “vinacci” i contadini ne han fatti per secoli, e oggi si beve decisamente meglio di una volta) oltre che di una comunità e di una natura che finalmente arriva anche a te, che non cogli la differenza (o forse non hai mai visto dal vero) tra un melo e un noce. Questa è stata la battaglia, sempre verso la qualità, di Veronelli e (pochi) seguaci: non l’essere padroni di un lessico o di un naso perfetti, ma l’essere consapevoli che nella cultura materiale si “vive” l’appartenenza a un’epoca, a un’epica, a una comunanza. “Camminare la terra», suo cavallo di battaglia, con quell’uso transitivo e raro del verbo (e Veronelli coglieva certamente la particolarità grammaticale che offriva), esprimeva la complessità (mai negata) della posta in gioco e la nitidezza con la quale ritagliava il suo lavoro, la sua filosofia, rispetto a quello degli altri (la modestia è buona per l’insalata, diceva). Sapeva di essere unico, o tra pochissimi, e sapeva che il suo lavoro consisteva nel celebrare la festa della vita, il senso di un pensiero libero che non si poneva confini, la proposta continua di incoraggiamento e miglioramento verso chi fa, non chi giudica o profetizza.
Veronelli ha progettato un futuro, dove oggi noi siamo, che alla sua epoca era davvero molto lontano: lo ha fatto insegnandoci che il percorso va eseguito passo dopo passo, errori e meraviglie. Camminare il pensiero di Veronelli è coltivare la (concreta) speranza di un mondo migliore, equilibrato, rispettoso della inesprimibile bellezza di cui il creato è capace, e che si può estrarre sempre: dal ronzio di un’ape a un raggio di sole che penetra tra i pampini e ti esplode nel sorriso di soddisfazione di chi ti offre un po’ del suo lavoro, anzi, del suo passaggio qui, “camminando” la Terra.