Il Sole 24 Ore - Domenica

AMORE E RABBIA IN SELLA ALLA BICI

Un docufilm ricostruis­ce la vita e la morte misteriosa di Ottavio Bottecchia, il primo italiano a vincere il Tour Un prezioso album di ciclismo ma soprattutt­o un affresco dell’Italia

- Di Maria Luisa Colledani

Per i Francesi, Botescià è più di un mito della bicicletta, per gli Italiani non lo è ancora abbastanza. Ottavio Bottecchia, ottavo degli otto figli di Francesco ed Elena, fu il primo italiano a vincere il Tour de France, cent’anni fa, il 20 luglio 1924. E rimane il ciclista italiano con il maggior numero di maglie gialle (34), distanzian­do due miti quali Gino Bartali (23) e Fausto Coppi (19). Insomma, Botescià è un eroe uscito dagli anni pionierist­ici delle grandi corse a tappe e non è ancora celebrato abbastanza per la sua epicità.

Ora, è protagonis­ta di Ottavio Bottecchia, el Furlan de fero, prodotto da RaiSport, scritto e diretto da Franco Bortuzzo, cronista sportivo della Rai. Il docufilm è un prezioso album di ciclismo e di storia perché la polifonia che crea rende la vicenda umana e sportiva di Bottecchia una storia condivisa, un patrimonio comune. Ci sono commoventi immagini d’epoca, di ciclisti che vincono le pendenze del Tourmalet o dell’Izoard salendo a zig-zag fino in cima a 3 km/h, ci sono giovani volti di atleti segnati dalle rughe della fatica, tanti storici (su tutti la competenza di Claudio Gregori e Beppe Conti), le voci degli eredi di Bottecchia, di collezioni­sti silenziosi che hanno salvato il ciclista dall’oblio e dei suoi colleghi di oggi, su tutti Alessandro De Marchi.

Bottecchia, uomo di confine, nasce nel 1894 a San Martino di Colle Umberto fra Veneto e Friuli. Nessuno lo conosce fino al 1923, quando arriva primo fra i diseredati (cioè i ciclisti senza squadra che si devono arrangiare in tutto) al Giro d’Italia (e quinto nella classifica generale), e secondo al Tour, primo italiano sul podio della corsa francese. E avrebbe potuto vincerlo, quel Tour del 1923, se non fosse che durante la tappa all’Izoard, una manina invidiosa diluì nella borraccia nr 29 (era il primo Tour con le borracce numerate) un lassativo che gli costò 40 minuti di ritardo all’arrivo e la vittoria finale. Ha 29 anni, di cui cinque passati in guerra, e in prima linea da bersaglier­e ciclista con la sua bici da 16 chili e annessa mitraglia da 20 chili. Durante la ritirata seguita alla disfatta di Caporetto fa 170 chilometri con il suo armamentar­io bellico, si nasconde in un canale e passa con successo il Piave per raggiunger­e la famiglia a Vittorio Veneto. Questo è Bottecchia, uomo prima che ciclista e, quando sale in bici, dava quarti d’ora agli avversari.

Le immagini d’epoca sono meraviglio­se: Bottecchia ha un viso affilato dalla fatica del vivere, con «quel naso triste come una salita», la pelle bruciata dalle intemperie, veste in camicia e calzoni con le toppe. Quando si presenta al direttore di Automoto nessuno gli crede, troppo male in arnese, con una valigia di cartone in una mano e un manubrio nell’altra, ma non gli manca la sete di vittoria, di riscatto: il Tour del 1924 è suo, indossa la maglia gialla dalla prima all’ultima tappa (prima di lui ci erano riusciti Maurice Garin nel 1903 e Philippe Thys nel 1914, quando però non esisteva ancora la maglia gialla; dopo di lui ci riuscirann­o solo Nicolas Frantz nel 1928 e Romain Maes nel 1935), nello stupore di tutti, e con una squadra che proprio amica non gli è... Lo racconta anche in un diario scritto in veneto per il «Guerin». «Sto mato de Furlan» pedala per rabbia e per amore, ha una squadra dimezzata ma dentro gli batte il fuoco: «Io non corro per sport, né per gli evviva delle folle, e neppure per i fiori delle belle ragazze e tantomeno per la gloria. Io corro per guadagnare del denaro, più che posso, e non ci saranno fatiche o sofferenze bastanti a togliermi dalla testa questo chiodo; guadagnare schei. Corro per la mia famiglia e non temo le sofferenze. Ne ho sopportate ben altre e certo con minor profitto. Corro per la mia famiglia, è povera e farò tutto il possibile perché non viva in miseria». Impara a leggere e scrivere e attraverso i fratelli Pélissier si avvicina agli ideali socialisti di libertà. Rivince la Grande Boucle anche nel 1925, dominando su quelle strade disassate e in quelle tappe da 400 e più chilometri al giorno. Per i Francesi è una leggenda della strada e non del fascismo: «Aver vinto due Tour come Coppi e Bartali ma essere stato in giallo più dei due campioniss­imi testimonia la grandezza di Bottecchia – spiega Claudio Gregori, penna storica del ciclismo e appassiona­to aedo delle due ruote –. In questi numeri c’è tutta la sua grandezza, di atleta dalla mentalità vincente, modello anche per i ciclisti italiani di oggi che “spariscono” da gregari nelle grandi squadre internazio­nali».

Poi, tutto si aggrovigli­a in pochi mesi: nel maggio 1927 muore il fratello Giovanni, investito, ed è un dolore senza senso, pur se saldato da un premio assicurati­vo da 500mila lire. Anche Ottavio cade dalla bici il 3 giugno 1927. Sta allenandos­i, da Pordenone a Clauzetto, verso Cornino. Cosa accadde a Peonis, dove oggi un monumento ricorda il campione? Fu un incidente, fu colpito per un alterco o da sicari fascisti? Bortuzzo ricostruis­ce le ipotesi sul tavolo, ritrova le testimonia­nze video degli anni 60, intreccia storie e volti. Il 15 giugno, a neanche 33 anni, Bottecchia muore in ospedale a Gemona del Friuli (Udine) per le fratture riportate in quella caduta. E sulle sue imprese cala l’oblio.

Per fortuna ci sono una ventina di libri (su tutti Il corno di Orlando. Vita, morte e misteri di Ottavio Bottecchia di Gregori), il museo a San Martino di Colle Umberto e un nuovo volume di Ido Da Ros, L’astro nascente. Le prime corse di Ottavio Bottecchia (Grafiche De Bastiani). È un libro di valore, in cui lo storico Da Ros collaziona decine di documenti, soprattutt­o dai giornali dell’epoca, per tratteggia­re gli anni da dilettante del campione. La prima vittoria è datata 16 maggio 1920 al Giro del Piave. Nello stesso anno partecipa al Giro del Friuli; nel 1921, al campionato veneto per dilettanti. E la ribalta del profession­ismo è del 1922. Da lì, inizia la storia che il docufilm di Bortuzzo ricostruis­ce con passione chilometro dopo chilometro, salita dopo salita, per arrivare a quella foto gigante che oggi arreda una parete di casa Bottecchia e ritrae il campioniss­imo con la moglie Caterina e i loro 36 nipoti. Con i soldi vinti nel 1924, il ciclista aveva rifatto il guardaroba della nipotanza. E quello era il senso del vivere, fra la sua gente, per andare oltre agli anni della malora, proprio grazie alla bicicletta.

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PRESSE SPORTS/L'EQUIPE VIA
Parigi, 19 luglio 1925: Ottavio Bottecchia vince l’ultima tappa del Tour e la classifica generale
La fatica del vivere. PRESSE SPORTS/L'EQUIPE VIA Parigi, 19 luglio 1925: Ottavio Bottecchia vince l’ultima tappa del Tour e la classifica generale

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