CHE BELLE STORIE RACCONTA IL GIORGIO!
Una mostra sull’ultimo dei Lucini e sulle sue geniali trovate tipografiche. Un’allegria di carte stampate, soluzioni tecniche, invenzioni scenografiche: il meglio della cultura del Novecento. Ci spiega tutto il curatore...
Una quindicina di anni fa, la Biblioteca Sormani di Milano aveva organizzato una mostra importante per festeggiare l’attività dei Lucini, primari stampatori con sede in città, con il titolo «Quando la tipografia diventa poesia». Me ne sono ricordato in questi giorni, mentre nella mia Kasa dei Libri allestivo «Il Giorgio», una retrospettiva dell’ultimo dei Lucini – Giorgio, appunto – che se ne è andato di soppiatto un ferragosto di sei anni or sono, e da allora, anche a causa di quella uscita di scena alla chetichella, mentre tutti se ne stavano in vacanza, non è stato ricordato (tranne che su questo giornale, s’intende).
Man mano che i libri si accumulavano, mi rendevo conto di quanto quella definizione di tipografia come poesia fosse centrata. E non era solo una questione di contenuti: certo, tra gli autori, da Montale a Luzi, da Ritsos a Ungaretti, Sereni o Wislawa Szymborska, c’erano i migliori poeti del Novecento; ma, al di là dei loro versi, il modo in cui Lucini li metteva in pagina era un gesto poetico in sé. Ecco una delle prime grandi cancellature di Emilio Isgrò, La bella addormentata, 250 copie di pura bellezza, scintillanti di un nero corvino che contrasta sul bianco immacolato della pagina; oppure, nello stesso formato quadrato e con uguale tiratura, Guardiamoci negli occhi, un Munari d’antan a fogli sciolti per giocare con le espressioni facciali. Quello stesso Munari che di lì a poco per l’amico Giorgio si inventerà l’Alfabeto Lucini, esercizio virtuosistico entrato nell’almanacco della grafica nazionale. Sul tavolo a fianco, le 300 copie annuali delle strenne che il manager con vocazione da mecenate Paolo Franci regalava ogni anno ai suoi amici, con soluzioni tecniche spesso arditissime (e costi conseguenti, si lamentava il committente che, da buon uomo d’azienda, non perdeva d’occhio i conti). Ci sono i primi libri di Crocetti accanto ai tanti per committenti privati di ogni tipo; un posto d’onore spetta naturalmendi te alle edizioni «All’insegna del pesce d’oro» di Vanni Scheiwiller: volumetti in sedicesimo dove si proponeva il meglio della cultura del Novecento. Ma non mancano libri in grande formato per le aziende, fatti in genere per quadrare i bilanci; e comunque, anche in quel caso, con sfide tecniche non banali: come i tre coffee table book sull’acciaio preparati per la Falck, «stampati in bicromia di nero e cyan per rendere la glacialità del metallo».
Per risolvere alcuni di questi problemi tecnici, a volte Lucini – che incontrava Scheiwiller «alle cinque e mezza, sei del mattino o nei miei uffici o più frequentemente sul tavolo della sala da pranzo della casa dell’editore, in via Melzi d’Eril» – impiegava settimane, anche mesi; ma sempre con il sorriso, perché per lui il lavoro era soprattutto divertimento: tanto più se il risultato era ottenuto dopo lunghi studi e sperimentazioni. Per questo, girovagando per la mostra, perfino io che l’ho ideata rimango stupefatto dall’allegria dell’insieme: un caleidoscopio di colori, di libretti celebrativi nascite, matrimoni, compleanni, fatti per il puro gusto di giocare con i traguardi della vita. Ci sono anche le bottiglie: quelle di un ottimo prosecco di Valdobbiadene che il tipografo faceva arrivare agli amici all’avvicinarsi dei primi caldi. Le etichette erano disegnate da personaggi come Ferdinando Scianna, Bob Noorda, il regista Silvio Soldini. A fianco, la cassetta di caratteri tipografici personalizzata che Lucini, generosissimo, mi aveva regalato per chissà quale ricorrenza. Alla fine, l’impressione maggiore la fanno i libri sfascicolati. E possiamo solo immaginarci la faccia di Montale, che già faticava a capire il senso dei «libri farfalla» (definizione sua) di Scheiwiller, quando il tipografo gli ha portato le sue 32 variazioni: altrettanti foglietti quadrati in tutte le tonalità per raccogliere pezzi di suoi elzeviri sul Corriere. Forse, invece, lo avrà compreso fin troppo bene: con quella complicità che i poeti sanno trovare con chi persegue i loro stessi risultati con tecniche diverse.