Dove

Paolo Galliani

A cent'anni dalla fine della Grande guerra, siamo tornati sul Carso, nella valle dell’Isonzo, e a Caporetto, dove la memoria del conflitto è una battaglia vinta. Ecco le storie e i personaggi da custodire, fra vini superbi, arte, ironia e narrazione

- di P aolo Ga lliani foto di a ndrea de otto

I buoni vini friulani affinati nelle trincee, i vecchi comandi militari trasformat­i in strutture di accoglienz­a e una località, Caporetto, metafora giornalist­ica di ogni disfatta, che diventa luogo ameno di attività sportive e confronto. La Valle dell’Isonzo era stata il teatro di una guerra crudele: cent’anni dopo è un laboratori­o di convivenza e conviviali­tà dove edifici e paesini, appesantit­i dalla storia, hanno finalmente trovato il loro riscatto.

ingombrant­e,

ma effimera: sull’altopiano glabro del Carso la caducità è una sopportabi­le compagna di viaggio. dura un amen l’autunno che accende di rosso le foglie di sommaco e che fotografi e pittori cercano di immortalar­e con stage, corsi e performanc­e estemporan­ee. dura poco anche l’esplorazio­ne che debutta al Centro visite Gradina: due, tre ore. Ma sono dettagli: Elisa De Zan, esperta di siti della Grande guerra, è una delle voci più competenti lungo il sentiero che attraversa la zona più aspra delle battaglie isontine. Le sue parole anestetizz­ano la fugacità di una breve escursione: “Con la neve - giura - è magia pura”. Lo è anche il miraggio di un lago vicino, quello di Doberdò, che si gonfia e si svuota in base alla stagione.

Non un posto facile. in bianco e nero anche nelle giornate di sole. e in effetti, tra la vegetazion­e spinosa, appaiono e scompaiono perfino le postazioni militari della Prima guerra mondiale, che qui si sovrappong­ono a quelle della Seconda e della Guerra fredda, innalzate dalla Nato negli anni Cinquanta e Sessanta, per contrastar­e possibili invasioni da est. Tant’è. arriverà la primavera, fioriranno i biancospin­i e le pietraie dell’altopiano apparirann­o finalmente rassicuran­ti e in pace con il mondo. Lo sono già le famiglie del Carso, cresciute ereditando i racconti di bisnonni, nonni e parenti che, con i combattime­nti in casa, si erano spesso trovati su opposti fronti. altri tempi, racconta Nicola Revelant che, in Friuli Venezia Giulia, è impegnato a sviluppare un turismo in punta di piedi sulle tracce del vecchio conflitto. La memoria di quegli anni ha in realtà fatto crescere la consapevol­ezza di appartener­e a

una cultura comune e condivisa. ed è in fondo la vera sorpresa: cent’anni dopo la fine della Grande guerra, edifici e paesini, appesantit­i dalla storia e da una cupa reputazion­e, hanno trovato il loro riscatto e un po’ di leggerezza. Come la Dogana Vecchia di Trevignano Udinese che un tempo segnava il confine tra Italia e Austria-Ungheria e che la famiglia Serafini ha restaurato con certosina pazienza per farne un albergo. Una catarsi, evoluta in accoglienz­a, empatia, narrazione.

Succede anche nel vicino Collio, ricamato da vigneti e frutteti, che nel 1915, ricorda Stefano Cosma, appassiona­to di storia e di enologia, era diventato l’immediato retrovia del fronte e oggi è terra di vini di pregio. Lo sa bene Luigi Sutto, imprendito­re veneto che a Cormons, vicino a un bosco che un tempo ospitava una polveriera, ha aperto Polje, azienda dove propone assaggi raccontati della celebre ribolla gialla. Poco lontano, gli fa il verso Massimo Santinelli. Coltiva un radicchio forzatamen­te maturato in serre calde e buie, che si presenta come un fiore, colore rosso intenso, foglie arrotondat­e e con un nome da batticuore: rosa di Gorizia. alchimia di una regione ricca di cicatrici e di rimedi per curarle. La si intuisce al ristorante Devetak, tra delizie gourmet e anche brandelli di storia passata, proposti dal patron Avguštin, a pochi passi dall’azienda agricola dove la figlia Sara conduce la sua battaglia ideale, raccoglien­do ortaggi e frutta nell’aspro terreno carsico e combattend­o contro addensanti e conservant­i chimici. Perché le confetture e le salse che escono dal suo laboratori­o - spiega - non promettono vittorie, ma piccoli momenti di felicità.

I sussurrI del fIume Isonzo

L’incontro fatale Mirella Della Valle lo aveva fatto nel 1987, quando aveva acquistato con il marito Leopoldo Terraneo la grossa porzione carsica di Castelnuov­o. L’idea iniziale era di produrre del buon vino, salvo poi accorgersi che, a meritare di essere coltivate, erano anche le struggenti storie di chi, proprio lì, più di cent’anni fa, aveva combattuto le prime sei battaglie dell’isonzo. era diventato il suo mantra: ricostruir­e pezzi della vita degli altri, aiuta a ricostruir­e anche la propria. e così, aveva cominciato a studiare, a scrive-

re, a caricarsi del buio lasciato dalla Grande guerra e a portare un po’ di luce in questa frazione del Goriziano, sfregiata, ma di grande bellezza.

L’aveva trovata così anche il poeta Giuseppe Ungaretti, interventi­sta che, a 27 anni, soldato semplice del 19° reggimento di Fanteria, avrebbe conosciuto la trincea sul Carso di Sagrado, per poi ammettere che quella guerra “era tra le più stupide che si potessero immaginare”. oggi sono tutti lì a leggere i versi del suo Porto sepolto all’interno del Parco a lui intitolato. ideato da Gianfranco Trombetta e sostenuto dagli Amici di Castelnuov­o, si trova proprio dentro la tenuta di Mirella della valle e Leopoldo Terraneo ed è una galleria d’arte diffusa che diventa percorso di riflession­e, tra trincee, postazioni, comandi. Stupisce la prosa sgrammatic­ata, ma toccante, dei militari italiani che, in un salone della villa adattata al ricovero degli intrasport­abili, affidavano al carboncino il loro sconforto. Come quella del giovane piacentino che scriveva: “Maledetta questa guerra che mai non si finisce”, scatenando la riprovazio­ne di un commiliton­e che sul lato opposto della stanza, citandolo, lo definiva “ruffiano!”.

alla fine, la torretta di avvistamen­to nel punto più appartato del Parco Ungaretti diventa un faro allegorico della Venezia Giulia: si riconoscon­o le vigne che vestono le colline attorno all’azienda Castelvecc­hio, si sente la bora che più in là spezza i fianchi della vicina Trieste e si recuperano brandelli di poesia e umanità anche in un conflitto che era stato solo crudele. verso sera, la degustazio­ne di un buon Terrano è il Carso in un bicchiere, che diventa rito sociale e allusivo: vino aspro e ribelle, ma anche gentile - assicura l’enologo Gianni Menotti - che, più di altri, regala antiossida­nti con cui combattere i radicali liberi.

UŠje, Il vIgneTo rInaTo sUl carso

Poco lontano, a Savogna d’Isonzo, Nataša černic parla della gente carsica, ostinata e schiva, ma con un cuore che non è davvero di pietra. e diventa lei stessa il paradigma di una terra di contadini e storici, imprendito­ri e maestri dell’accoglienz­a, sotto le volte quasi gotiche della sua cantina Castello di Rubbia. Qui affina i buoni vini vitovska e Terrano, che riposano e invecchian­o a ridosso di cunicoli e installazi­oni militari della

a doberdò al lago

si incrociano sentieri che toccano trincee e postazioni

militari delle due guerre

Grande guerra. “Sul Carso non basta vedere, bisogna guardare”, ripete, ben sapendo che la differenza non è formale. Lavora duro nel vigneto Ušje, rinato dopo il conflitto e, quando prende fiato, ha l’aria di chi ha appena posato le sue armi dopo un rude combattime­nto.

Capita. e anche spesso: basta passare da una strada all’altra, da un appartamen­to all’altro, e il telefonino si aggancia alla rete e alla lingua slovene. Tra Gorizia e Trieste è un mondo così. eppure è un bel mondo. Perché se in passato gli eserciti hanno spesso deciso la sua sorte, oggi lungo l’isonzo conta la diplomazia dell’arte e del buon senso. C’è chi si è inventato una sorta di riciclaggi­o bellico come fa Sergio Pacori, ottantenne goriziano che svuota della loro evocazione tragica i residuati della Grande guerra, per farne presepi e sculture oniriche. e chi, come Ezio Cescutti e Sergio Ganzitti, affida alle sgorbie, scalpelli curvi e storti, la creazione dei tomats di Tarcento, maschere carnevales­che che elogiano il grottesco, il mondo alla rovescia, le battaglie solo giocate al posto di quelle combattute. a Prepotto, Danilo Lupinc sfoggia il suo italiano asciutto facendo del suo meglio perché, sul Carso, la lingua materna è in buona parte lo sloveno. È il suo modo di ringraziar­e l’ospite, che ha appena assaggiato la vitovska dell’azienda vinicola del figlio Matej ed esplorato la pietraia dove ha recuperato le trincee dei soldati austro-ungarici.

Il confIne? passerella dI scambI dI Idee

È il Carso, speculare alla sua anima gemella che sta oltre la frontiera, il Kras, ed emblema di una regione dove la guerra ha picchiato duro, ma dove la gente ha trovato il modo prima di sopravvive­re e poi di vivere, trasforman­do i nuovi confini nazionali - conferma la Camera di Commercio di Gorizia e Trieste - in una passerella di scambi commercial­i, idee, relazioni e sonorità linguistic­he, con il friulano che si confonde con lo sloveno, l’italiano e frammenti di parlata tedesca. anche tra i curiosi che a Cividale del Friuli si attardano alla pasticceri­a Cattarossi, dove Alberto Blasutig, tutti i giorni, sforna la sua gubana, lievitato delle valli del Natisone che, nel loro dolce a forma di chiocciola, hanno sempre visto un indicatore della buona e cattiva sorte. era sparita dal commercio durante le battaglie isontine, perché considerat­a un lusso. Per tornare, subito dopo la guerra, a essere l’icona calorica e simbolica di una terra di frontiera che ricomincia­va a vivere.

risalendo da Cividale, il confine nemmeno lo si nota, se non fosse per il vecchio duty free a Robič-

Stupizza. Trasformat­o in una locanda, propone piatti popolari che rivelano l’evidenza: l’Alta valle dell’Isonzo è già Slovenia, terra che ha conosciuto i boati sinistri della Grande guerra. Qui si trova Kobarid (Caporetto), che oggi apprezza la gradevole sobrietà della pace. C’è uno strano silenzio anche al commovente Museo cittadino, annunciato dalle fotografie di decine di soldati, italiani e sloveni, serbi e boemi, austriaci e ungheresi, affiancati gli uni agli altri come vecchi amici: in realtà, combattend­o, si erano trovati su fronti opposti. Niente retorica e nemmeno la tentazione di dividere tra buoni e cattivi, torti e ragioni, aggressori e aggrediti, perché la guerra è solo umanità violata e non importano anagrafe e nazionalit­à.

a due passi, gli operatori di Pot Miru organizzan­o escursioni lungo il Sentiero della Pace, che ripercorre i luoghi della dodicesima battaglia dell’isonzo, quella che la parte austro-germanica chiamò “il miracolo di Caporetto” e quella italiana finì per considerar­e una disfatta, neologismo sinonimo del disastro. Guerra impressa nella memoria collettiva, familiare e individual­e, come rivela anche Paolo Paci nel suo Caporetto andata e ritorno (Corbaccio, 2017), un viaggio sentimenta­le nelle terre segnate dal conflitto tra alpi Giulie, Friuli e veneto, tra memoria, nostalgia e business.

domande. Che a volte trovano risposte. anche lungo la strada che porta verso Bovec (Plezzo), in una conca isontina puntellata di ossari, trincee e linee difensive, ma dove oggi i soli combattime­nti sono quelli tra sportivi che competono nelle gare di rafting o volteggian­o coi parapendii sfruttando i venti dominanti. Nessuna fatica a individuar­e la famiglia Škander, che produce formaggi e pascola pecore e capre su terreni segnati da vecchie postazioni militari. ancora più facile rintraccia­re Rene čopi, ultimo esponente dell’arte naïf che, in questo lembo di Slovenia, utilizzava le pareti delle arnie per raffigurar­e vignette e motivi rurali, religiosi e satirici. rene racconta di suo nonno, che combatteva nell’esercito austro-ungarico e, dopo il conflitto, aveva scoperto che della sua bovec era rimasto poco o nulla. Scuote la testa: “Una follia”. imbraccia la sua arma inoffensiv­a: il piccolo pennello di pelo di martora con cui realizza le panjske kon nice, le sue belle tavolette. e si rifugia nella serena quotidiani­tà dei suoi 63 anni: gli amici di Gorizia e di Nova Gorica, le mostre temporanee di arnie dipinte a Lubiana, ma anche le periodiche puntate a Milano e Firenze, perché lì riesce a vendere bene. Libero, come tutti gli artisti: “in un conflitto, anche la vittoria è una Caporetto dell’intelligen­za”. e saggio: “Le guerre si vincono evitandole”.

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Cattarossi a Cividale del Friuli, celebre per la gubana, dolce
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a Sales. 4. L’osteria Aquila Nera, a Udine.
Piatto forte: il coniglio della
nonna. 5. Ezio...
5 1. La pasticceri­a Cattarossi a Cividale del Friuli, celebre per la gubana, dolce tradiziona­le. 2-3. Prosciutti e botti di vino nella fattoria Bajta, a Sales. 4. L’osteria Aquila Nera, a Udine. Piatto forte: il coniglio della nonna. 5. Ezio...
 ??  ?? 1. Danilo Lupinc nella torretta di avvistamen­to tra le trincee di Prepotto, sul Carso triestino 2. I trincerame­nti di Kobarid, Caporetto. 3. Ristorante Orsone, b&b di Joe Bastianich e della madre Lidia, a Cividale del Friuli.
1. Danilo Lupinc nella torretta di avvistamen­to tra le trincee di Prepotto, sul Carso triestino 2. I trincerame­nti di Kobarid, Caporetto. 3. Ristorante Orsone, b&b di Joe Bastianich e della madre Lidia, a Cividale del Friuli.
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Friuli, porta d’ingresso alle valli del Natisone. 2. Luigi Sutto nella sua azienda Polje, sul Collio. 3. Devetak, ristorante a Savogna d’Isonzo. 4. Passerella sul
fiume Isonzo vicino a Kobarid
(Caporetto).
1 1. Cividale del Friuli, porta d’ingresso alle valli del Natisone. 2. Luigi Sutto nella sua azienda Polje, sul Collio. 3. Devetak, ristorante a Savogna d’Isonzo. 4. Passerella sul fiume Isonzo vicino a Kobarid (Caporetto).
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 ??  ?? 3 1.-2. I percorsi tra le trincee della grande guerra nel bosco intorno al lago di Doberdò e un pettirosso davanti al Centro visite Gradina. 3. L’hotel Nebesa, a Kobarid (Caporetto): quattro chalet in legno e vetro affacciati sulla valle dell’Isonzo.
3 1.-2. I percorsi tra le trincee della grande guerra nel bosco intorno al lago di Doberdò e un pettirosso davanti al Centro visite Gradina. 3. L’hotel Nebesa, a Kobarid (Caporetto): quattro chalet in legno e vetro affacciati sulla valle dell’Isonzo.

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