Paolo Galliani
A cent'anni dalla fine della Grande guerra, siamo tornati sul Carso, nella valle dell’Isonzo, e a Caporetto, dove la memoria del conflitto è una battaglia vinta. Ecco le storie e i personaggi da custodire, fra vini superbi, arte, ironia e narrazione
I buoni vini friulani affinati nelle trincee, i vecchi comandi militari trasformati in strutture di accoglienza e una località, Caporetto, metafora giornalistica di ogni disfatta, che diventa luogo ameno di attività sportive e confronto. La Valle dell’Isonzo era stata il teatro di una guerra crudele: cent’anni dopo è un laboratorio di convivenza e convivialità dove edifici e paesini, appesantiti dalla storia, hanno finalmente trovato il loro riscatto.
ingombrante,
ma effimera: sull’altopiano glabro del Carso la caducità è una sopportabile compagna di viaggio. dura un amen l’autunno che accende di rosso le foglie di sommaco e che fotografi e pittori cercano di immortalare con stage, corsi e performance estemporanee. dura poco anche l’esplorazione che debutta al Centro visite Gradina: due, tre ore. Ma sono dettagli: Elisa De Zan, esperta di siti della Grande guerra, è una delle voci più competenti lungo il sentiero che attraversa la zona più aspra delle battaglie isontine. Le sue parole anestetizzano la fugacità di una breve escursione: “Con la neve - giura - è magia pura”. Lo è anche il miraggio di un lago vicino, quello di Doberdò, che si gonfia e si svuota in base alla stagione.
Non un posto facile. in bianco e nero anche nelle giornate di sole. e in effetti, tra la vegetazione spinosa, appaiono e scompaiono perfino le postazioni militari della Prima guerra mondiale, che qui si sovrappongono a quelle della Seconda e della Guerra fredda, innalzate dalla Nato negli anni Cinquanta e Sessanta, per contrastare possibili invasioni da est. Tant’è. arriverà la primavera, fioriranno i biancospini e le pietraie dell’altopiano appariranno finalmente rassicuranti e in pace con il mondo. Lo sono già le famiglie del Carso, cresciute ereditando i racconti di bisnonni, nonni e parenti che, con i combattimenti in casa, si erano spesso trovati su opposti fronti. altri tempi, racconta Nicola Revelant che, in Friuli Venezia Giulia, è impegnato a sviluppare un turismo in punta di piedi sulle tracce del vecchio conflitto. La memoria di quegli anni ha in realtà fatto crescere la consapevolezza di appartenere a
una cultura comune e condivisa. ed è in fondo la vera sorpresa: cent’anni dopo la fine della Grande guerra, edifici e paesini, appesantiti dalla storia e da una cupa reputazione, hanno trovato il loro riscatto e un po’ di leggerezza. Come la Dogana Vecchia di Trevignano Udinese che un tempo segnava il confine tra Italia e Austria-Ungheria e che la famiglia Serafini ha restaurato con certosina pazienza per farne un albergo. Una catarsi, evoluta in accoglienza, empatia, narrazione.
Succede anche nel vicino Collio, ricamato da vigneti e frutteti, che nel 1915, ricorda Stefano Cosma, appassionato di storia e di enologia, era diventato l’immediato retrovia del fronte e oggi è terra di vini di pregio. Lo sa bene Luigi Sutto, imprenditore veneto che a Cormons, vicino a un bosco che un tempo ospitava una polveriera, ha aperto Polje, azienda dove propone assaggi raccontati della celebre ribolla gialla. Poco lontano, gli fa il verso Massimo Santinelli. Coltiva un radicchio forzatamente maturato in serre calde e buie, che si presenta come un fiore, colore rosso intenso, foglie arrotondate e con un nome da batticuore: rosa di Gorizia. alchimia di una regione ricca di cicatrici e di rimedi per curarle. La si intuisce al ristorante Devetak, tra delizie gourmet e anche brandelli di storia passata, proposti dal patron Avguštin, a pochi passi dall’azienda agricola dove la figlia Sara conduce la sua battaglia ideale, raccogliendo ortaggi e frutta nell’aspro terreno carsico e combattendo contro addensanti e conservanti chimici. Perché le confetture e le salse che escono dal suo laboratorio - spiega - non promettono vittorie, ma piccoli momenti di felicità.
I sussurrI del fIume Isonzo
L’incontro fatale Mirella Della Valle lo aveva fatto nel 1987, quando aveva acquistato con il marito Leopoldo Terraneo la grossa porzione carsica di Castelnuovo. L’idea iniziale era di produrre del buon vino, salvo poi accorgersi che, a meritare di essere coltivate, erano anche le struggenti storie di chi, proprio lì, più di cent’anni fa, aveva combattuto le prime sei battaglie dell’isonzo. era diventato il suo mantra: ricostruire pezzi della vita degli altri, aiuta a ricostruire anche la propria. e così, aveva cominciato a studiare, a scrive-
re, a caricarsi del buio lasciato dalla Grande guerra e a portare un po’ di luce in questa frazione del Goriziano, sfregiata, ma di grande bellezza.
L’aveva trovata così anche il poeta Giuseppe Ungaretti, interventista che, a 27 anni, soldato semplice del 19° reggimento di Fanteria, avrebbe conosciuto la trincea sul Carso di Sagrado, per poi ammettere che quella guerra “era tra le più stupide che si potessero immaginare”. oggi sono tutti lì a leggere i versi del suo Porto sepolto all’interno del Parco a lui intitolato. ideato da Gianfranco Trombetta e sostenuto dagli Amici di Castelnuovo, si trova proprio dentro la tenuta di Mirella della valle e Leopoldo Terraneo ed è una galleria d’arte diffusa che diventa percorso di riflessione, tra trincee, postazioni, comandi. Stupisce la prosa sgrammaticata, ma toccante, dei militari italiani che, in un salone della villa adattata al ricovero degli intrasportabili, affidavano al carboncino il loro sconforto. Come quella del giovane piacentino che scriveva: “Maledetta questa guerra che mai non si finisce”, scatenando la riprovazione di un commilitone che sul lato opposto della stanza, citandolo, lo definiva “ruffiano!”.
alla fine, la torretta di avvistamento nel punto più appartato del Parco Ungaretti diventa un faro allegorico della Venezia Giulia: si riconoscono le vigne che vestono le colline attorno all’azienda Castelvecchio, si sente la bora che più in là spezza i fianchi della vicina Trieste e si recuperano brandelli di poesia e umanità anche in un conflitto che era stato solo crudele. verso sera, la degustazione di un buon Terrano è il Carso in un bicchiere, che diventa rito sociale e allusivo: vino aspro e ribelle, ma anche gentile - assicura l’enologo Gianni Menotti - che, più di altri, regala antiossidanti con cui combattere i radicali liberi.
UŠje, Il vIgneTo rInaTo sUl carso
Poco lontano, a Savogna d’Isonzo, Nataša černic parla della gente carsica, ostinata e schiva, ma con un cuore che non è davvero di pietra. e diventa lei stessa il paradigma di una terra di contadini e storici, imprenditori e maestri dell’accoglienza, sotto le volte quasi gotiche della sua cantina Castello di Rubbia. Qui affina i buoni vini vitovska e Terrano, che riposano e invecchiano a ridosso di cunicoli e installazioni militari della
a doberdò al lago
si incrociano sentieri che toccano trincee e postazioni
militari delle due guerre
Grande guerra. “Sul Carso non basta vedere, bisogna guardare”, ripete, ben sapendo che la differenza non è formale. Lavora duro nel vigneto Ušje, rinato dopo il conflitto e, quando prende fiato, ha l’aria di chi ha appena posato le sue armi dopo un rude combattimento.
Capita. e anche spesso: basta passare da una strada all’altra, da un appartamento all’altro, e il telefonino si aggancia alla rete e alla lingua slovene. Tra Gorizia e Trieste è un mondo così. eppure è un bel mondo. Perché se in passato gli eserciti hanno spesso deciso la sua sorte, oggi lungo l’isonzo conta la diplomazia dell’arte e del buon senso. C’è chi si è inventato una sorta di riciclaggio bellico come fa Sergio Pacori, ottantenne goriziano che svuota della loro evocazione tragica i residuati della Grande guerra, per farne presepi e sculture oniriche. e chi, come Ezio Cescutti e Sergio Ganzitti, affida alle sgorbie, scalpelli curvi e storti, la creazione dei tomats di Tarcento, maschere carnevalesche che elogiano il grottesco, il mondo alla rovescia, le battaglie solo giocate al posto di quelle combattute. a Prepotto, Danilo Lupinc sfoggia il suo italiano asciutto facendo del suo meglio perché, sul Carso, la lingua materna è in buona parte lo sloveno. È il suo modo di ringraziare l’ospite, che ha appena assaggiato la vitovska dell’azienda vinicola del figlio Matej ed esplorato la pietraia dove ha recuperato le trincee dei soldati austro-ungarici.
Il confIne? passerella dI scambI dI Idee
È il Carso, speculare alla sua anima gemella che sta oltre la frontiera, il Kras, ed emblema di una regione dove la guerra ha picchiato duro, ma dove la gente ha trovato il modo prima di sopravvivere e poi di vivere, trasformando i nuovi confini nazionali - conferma la Camera di Commercio di Gorizia e Trieste - in una passerella di scambi commerciali, idee, relazioni e sonorità linguistiche, con il friulano che si confonde con lo sloveno, l’italiano e frammenti di parlata tedesca. anche tra i curiosi che a Cividale del Friuli si attardano alla pasticceria Cattarossi, dove Alberto Blasutig, tutti i giorni, sforna la sua gubana, lievitato delle valli del Natisone che, nel loro dolce a forma di chiocciola, hanno sempre visto un indicatore della buona e cattiva sorte. era sparita dal commercio durante le battaglie isontine, perché considerata un lusso. Per tornare, subito dopo la guerra, a essere l’icona calorica e simbolica di una terra di frontiera che ricominciava a vivere.
risalendo da Cividale, il confine nemmeno lo si nota, se non fosse per il vecchio duty free a Robič-
Stupizza. Trasformato in una locanda, propone piatti popolari che rivelano l’evidenza: l’Alta valle dell’Isonzo è già Slovenia, terra che ha conosciuto i boati sinistri della Grande guerra. Qui si trova Kobarid (Caporetto), che oggi apprezza la gradevole sobrietà della pace. C’è uno strano silenzio anche al commovente Museo cittadino, annunciato dalle fotografie di decine di soldati, italiani e sloveni, serbi e boemi, austriaci e ungheresi, affiancati gli uni agli altri come vecchi amici: in realtà, combattendo, si erano trovati su fronti opposti. Niente retorica e nemmeno la tentazione di dividere tra buoni e cattivi, torti e ragioni, aggressori e aggrediti, perché la guerra è solo umanità violata e non importano anagrafe e nazionalità.
a due passi, gli operatori di Pot Miru organizzano escursioni lungo il Sentiero della Pace, che ripercorre i luoghi della dodicesima battaglia dell’isonzo, quella che la parte austro-germanica chiamò “il miracolo di Caporetto” e quella italiana finì per considerare una disfatta, neologismo sinonimo del disastro. Guerra impressa nella memoria collettiva, familiare e individuale, come rivela anche Paolo Paci nel suo Caporetto andata e ritorno (Corbaccio, 2017), un viaggio sentimentale nelle terre segnate dal conflitto tra alpi Giulie, Friuli e veneto, tra memoria, nostalgia e business.
domande. Che a volte trovano risposte. anche lungo la strada che porta verso Bovec (Plezzo), in una conca isontina puntellata di ossari, trincee e linee difensive, ma dove oggi i soli combattimenti sono quelli tra sportivi che competono nelle gare di rafting o volteggiano coi parapendii sfruttando i venti dominanti. Nessuna fatica a individuare la famiglia Škander, che produce formaggi e pascola pecore e capre su terreni segnati da vecchie postazioni militari. ancora più facile rintracciare Rene čopi, ultimo esponente dell’arte naïf che, in questo lembo di Slovenia, utilizzava le pareti delle arnie per raffigurare vignette e motivi rurali, religiosi e satirici. rene racconta di suo nonno, che combatteva nell’esercito austro-ungarico e, dopo il conflitto, aveva scoperto che della sua bovec era rimasto poco o nulla. Scuote la testa: “Una follia”. imbraccia la sua arma inoffensiva: il piccolo pennello di pelo di martora con cui realizza le panjske kon nice, le sue belle tavolette. e si rifugia nella serena quotidianità dei suoi 63 anni: gli amici di Gorizia e di Nova Gorica, le mostre temporanee di arnie dipinte a Lubiana, ma anche le periodiche puntate a Milano e Firenze, perché lì riesce a vendere bene. Libero, come tutti gli artisti: “in un conflitto, anche la vittoria è una Caporetto dell’intelligenza”. e saggio: “Le guerre si vincono evitandole”.