PIEMONTE | IL CIBO È CULTURA
Fra le anse del Tanaro, nel Cuneese, sopravvive un’Italia d’altri tempi. Anche nei sapori: schietti e genuini. Da scoprire prima che sia troppo tardi
Piccolo mondo antico. I sapori schietti e genuini dell’Alta Langa, un’Italia d’altri tempi
Ci sono valli, borghi, nicchie di territorio che, per qualche oscuro percorso del destino, rimangono fuori dal cono dei riflettori e, per questo, sembrano condannati per sempre all’oscurità, sebbene abbiano una propria storia e una propria luce interna. Spesso abbagliante. È il caso di quella porzione meridionale di Langa che, bordata da un tratto di Tanaro particolarmente sinuoso, punta verso Cuneo e Mondovì, allontanandosi dai lustrini aristocratici del Barolo per insinuarsi nelle terre del più popolare, ruspante Dolcetto. Un Piemonte profondo in un’Italia profonda e rurale, quasi dissolta. Qui, fino a qualche generazione fa, le chiatte ancora trasbordavano pigramente uva, bestiame e persone da una sponda all’altra del fiume, in una sorta di andirivieni interminabile. Fra quelle persone c’era anche Teresa Ferrero, in arte Ester, la ragazzina di Clavesana che, in pochi anni, verso la seconda metà dell’Ottocento, da contadinella si fece ballerina,
poi donna fatale e infine amante ufficiale di Ismail Pascià, il Kedivé. Una storia da romanzo, la sua (che, infatti, è divenuta un libro: Ester la ballerina del Kedivé, Araba Fenice, 2014). Ester morì anziana, nel 1941, in una casa piena di ricordi e di vestigia dei lussi perduti della “vecchia Clavesana”, l’agglomerato medievale aggrappato ai fianchi della collina e oggi quasi disabitato, affacciato sulle grandi anse del Tanaro.
La storia di Ester e la tortuosità del fiume sono in qualche modo speculari: segnano la storia di luoghi che profumano di un passato antico, di tempi che cambiano. Una Langa senza dubbio più brulla, più verace e più aspra, ma non meno ghiotta dell’altra. Patria non solo dell’uva Dolcetto e del vino che se ne ricava, il Dogliani docg, ma pure della razza bovina Piemontese, di fiere contadine autentiche, come quella del Bue Grasso di Carrù, delle tume, delle nocciole, del tartufo e di una ruralità che sembra attaccata alla gente come un lichene: non a caso è a Mondovì che sopravvive l’ultimo dei Comizi agrari italiani, le istituzioni ottocentesche per la diffusione delle tecniche agricole create proprio ai tempi di Ester e ora ovunque scomparsi. Ma poi, a sorpresa, si scopre che la campagna accoglie vip in cerca di privacy, seduti sulle ormai celebri panchine giganti disegnate da Chris Bangle, il designer di fama mondiale che ha preso casa nei dintorni.
IL PIÙ AMICHEVOLE DEI VINI
Già spingendosi da Monforte d’Alba e dalla sua residua mondanità del Barolo fino al terrazzo sui filari di Cascina Amalia, la fattoria che sta a cavalcioni tra il mondo del Nebbiolo e quello del Dolcetto, non è difficile farsi un’idea dell’anima profondamente vignaiola. La strada che prosegue per Dogliani è un saliscendi accidentato, dove ogni poggio nasconde una vigna o un podere. Tutto pare più tormentato rispetto anche a soli pochi chilometri a nord. Strano, a pensarci, visto che qualcuno ha definito il Dogliani, il frutto per antonomasia dell’uva padrona di questo territorio, il Dolcetto, “il più amichevole dei vini piemontesi”. In città quell’uva e quel vino hanno una casa stabile. Si chiama La bottega del vino di Dogliani ed è al tempo stesso centro di informazione, sala di esposizione e punto vendita dei produttori associati al sodalizio: il luogo giusto per comprare qualche bottiglia. Senza omettere però di dare un’occhiata alla cittadina, impregnata dell’atmosfera dolcemente eclettica e tipicamente sabauda suggerita dalle architetture ottocentesche.
Belvedere Langhe, toponimo che lascia presagire molte cose, si incontra nel mezzo di un sinuoso e variegato paesaggio collinare, dove la vigna abbonda senza farsi tuttavia, come altrove, monocoltura. Ora ci si trova nel cuore dell’ altra Langa, quella ancora intrisa di uno spirito rurale capace di affiorare dai portoni, dalle botteghe, dai bar, dalle case. E dalle cucine, ovviamente. In quest’ottica, la Trattoria del Peso è una tappa fondamentale. Tutto, lì dentro, richiama le atmosfere di un Piemonte antico e defilato. Anche il carattere un po’ spigoloso, che poi si scopre essere semplicemente riservato, della gente. Così, pure per chi non volesse concedersi il peccato di gola di un sontuoso fritto alla piemontese (13 portate di puro piacere), un’occhiata alla bottega piena delle “buone cose di una volta”, alla sala da pranzo che pare uscita da un documentario degli anni Cinquanta, le foto seppiate e le scritte che inneggiano a sua maestà il Dolcetto, è doverosa: “d’stupuma na buta d’Ducèt” (stappiamo una bottiglia di Dolcetto), ammonisce l’oste dalla porta
La Trattoria
del Peso sembra uscita da un film
anni Cinquanta
della cucina. Se ne esce sollevati per la veracità del contesto o appesantiti per le abbondanti consumazioni, ma comunque felici.
Il Tanaro e le sue golene ancora non si vedono, ma se ne intuisce in qualche modo la presenza mentre la via piega verso ovest, affrontando le salite e le discese che portano, in una cornice quasi pittorica, verso la frazione dello Sbaranzo. Giunti qui, prima di proseguire, tra svolte, boschi e ripide colline, verso Clavesana e il grande fiume, vale però la pena di fare una breve deviazione verso la minuscola borgata delle Surie, con la grande chiesa di Sant’Anna che, come smarrita per la solitudine, sovrasta le poche case ormai abbandonate, qualcuna delle quali ancora conserva le vecchie insegne da trattoria. Due le cose da vedere: il magnifico panorama sulla valle e l’Alta Langa e l’ex scuola elementare rurale circondata dai vigneti sperimentali di Dolcetto coltivati a mano dai vignaioli della cantina sociale di Clavesana, che l’hanno recuperata come luogo per degustazioni, riunioni, convegni.
Il paese compare di colpo, quasi a sorpresa, dietro a una curva. Impressionano subito le dimensioni della seicentesca chiesa di San Michele al cospetto di un borgo minuscolo e pressoché deserto. La piazzetta, i cimeli militari, qualche vecchio palazzo, i cortili. Le fondamenta di molte case scricchiolano e le mura si crepano, piantate come sono sulle falde franose della collina che scende verso il fiume, solcata dai profondi calanchi di origine erosiva puntati a picco verso il Tanaro. Il loro spettacolo è magnifico, a tratti solenne. Vale la pena di guardarli da vicino, dall’alto di uno dei tanti affacci ricavati sulle sommità dall’associazione che ne cura il mantenimento e la valorizzazione. Meglio ancora poi, se la stagione lo permette, guardarli dal basso, partecipando ai rafting lenti: pigre e fruscianti discese in gommone che scivolando sull’acqua conducono a sponde altrimenti irraggiungibili e a punti di osser-
vazione naturalistica di rara bellezza. Di là dal fiume c’è invece la sede della Cantina di Clavesana, una vera istituzione del territorio. Nel punto vendita, oltre a un Dogliani ruspante e ad altri vini langaroli (da assaggiare l’intrigante spumante Alta Langa doc), anche prodotti alimentari e libri di storia locale. Il loro slogan, Siamo Dolcetto, la dice lunga sulla loro missione.
Carrù, la cosiddetta “porta delle Langhe”, deve la notorietà alla Fiera del Bue Grasso, considerata la più antica e pittoresca fiera del bestiame d’Italia, in calendario a metà dicembre di ogni anno. Per respirare, se si è fuori stagione, almeno un po’ dell’atmosfera irripetibile di quei giorni freddi e rarefatti d’inverno occorre andare ad assaggiare qualche specialità di bollito alla carrucese e a visitare il museo dedicato alla razza Piemontese. Che però è tutto il contrario dell’asettico ambiente che si potrebbe immaginare: alla fine di un agile percorso multimediale c’è infatti una sala di degustazione dove i visitatori possono assaggiare, con tutte le spiegazioni anche gastronomiche del caso, la carne di Fassona cotta espressa sulla fiamma per loro da uno chef.
Ora il piatto fondovalle separa le Alpi dalle colline della Langa che si stagliano a est. È lì che bisogna risalire per andare a scovare i maestri artigiani della crema di nocciole e i caseifici più sperduti. Prima di farlo merita, però, spingersi fino alle porte di Morozzo per concedersi una passeggiata (magari a cavallo) nella bellissima riserva naturale Crava Morozzo, uno dei più affascinanti ambienti umidi del Piemonte, con oltre 150 specie di uccelli e numerosi punti di osservazione, e una sosta all’antichissimo monastero di San Biagio. La possibilità della visita è subordinata alla disponibilità delle anziane suore che ancora vi vivono. Oltre agli affreschi del Quattrocento e ai resti dell’edificio medievale, è assolutamente da vedere il frutteto, dove in collaborazione con il Comizio agrario vengono coltivate oltre cento varietà di mele e di pere rarissime. Per questo piccolo mondo antico, in fondo, un futoro c’è ancora.
Magnifica la vista dei calanchi puntati verso il Tanaro che solcano le colline