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DAGLI HIPPIE AGLI HIPSTER

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Bali, una delle isole più grandi fra le oltre 18 mila che compongono l’Indonesia, è l’unica enclave hindu nel Paese islamico più popoloso al mondo, nonché una delle dieci destinazio­ni turistiche più celebri del pianeta. Possesso olandese dalla seconda metà dell’Ottocento, occupata dai giapponesi durante la Seconda guerra mondiale, nel 1949 entra a far parte della neocostitu­ita Repubblica degli Stati Uniti di Indonesia. Inizia negli anni Trenta lo sviluppo turistico di questa “terra incantata di esteti in pace con sé stessi e con la natura”, come scrive l’antropolog­a Margaret Mead durante un soggiorno in quel periodo. Negli anni Sessanta l’isola è inserita nel piano di sviluppo del presidente Suharto, alleato degli Stati Uniti e apprezzato dal Fondo monetario internazio­nale e dalla Banca Mondiale, responsabi­le nel 1965 del genocidio di un milione di comunisti (80 mila solo a Bali). Ma è solo nel 1969, con l’apertura dell’aeroporto internazio­nale, che Bali diventa meta del turismo alternativ­o europeo e australian­o di hippie e surfisti in cerca del lost paradise. A metà degli anni Ottanta la febbre del mattone trasforma la zona di Kuta beach nell’Ibiza dell’Oceano Indiano. Il sogno di tour operator e imprendito­ri è interrotto dagli attentati terroristi­ci del 2002 e del 2005, che provocano un sensibile calo delle presenze. La ripresa inizia una decina di anni fa con una politica mirata alla conservazi­one dell’ambiente, con il sostegno alle cooperativ­e artigiane e con l’arrivo di un turismo culturale di fascia alta, richiamato dai nuovi ecolodge a cinque stelle delle più esclusive catene internazio­nali.

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