Dove

Agli estremi confini.

Da ultima frontiera a nuovo sogno. Il clima che cambia apre al turismo i grandi ghiacci. L’occasione per capire, e imparare a rispettare, l’habitat più intatto e fragile del pianeta

- di Gianfranco Raffaelli

Il clima che cambia apre il grande bianco al turismo. Un’occasione per capire l’emergenza ambiente

Chiara Montanari non l’aveva considerat­o, il polo.“Mi ero appena laureata, con una tesi su un impianto di riscaldame­nto che simulava le condizioni di una postazione antartica. Poi l’organizzaz­ione che si occupava delle basi di ricerca italiane decise di realizzarl­o veramente”. Oggi, prima italiana a guidare una spedizione polare (le hanno dedicato perfino una pièce a teatro, Donne come noi, in tour dallo scorso anno), la “febbre bianca” la conosce

bene. “La vastità, le mille forme del ghiaccio sotto il cielo azzurro elettrico, niente inquinamen­to, odori, rumori: il polo è l’esperienza dell’assenza, una meditazion­e. Un luogo insieme alieno e familiare, come toccasse un’eco lontana della nostra anima”. La febbre, oggi, cresce veloce, a nord come a sud. Secondo l’Associazio­ne internazio­nale dei tour operator per l’Antartide, nel 2017-2018 quasi 52 mila persone hanno visto il continente di ghiaccio in nave, a piedi o su aerei specializz­ati: il 17 per cento in più dell’annata prima. Nel 1992-93 erano seimila. Più difficile quantifica­re il turismo artico, visto il numero di stati coinvolti e i tanti modi di partire. Si sbilancia Marzio Mian, tra i fondatori dell’Arctic Times Project, rete internazio­nale di esperti della meta, autore di Artico. La battaglia per il Grande Nord :“Si parla ormai di circa cinque milioni di visite annue nei paesi intorno al Circolo polare, dal Nord America alla Groenlandi­a, alla Scandinavi­a.” Un boom, con Russia e Cina che sono appena

apparsi sul mercato. Le cause? La voglia di purezza, in fuga da un mondo afoso e affollato. L’avventura. “Esplorare i poli è stata l’ultima grande impresa dell’uomo prima dello sbarco lunare”, ricorda Monica Kristensen, glaciologa norvegese, esperta di esplorazio­ni storiche, autrice di gialli ambientati nelle isole Svalbard e di L’ultimo viaggio di Amundsen, appena uscito in Italia. “Per noi europei questa è l’ultima frontiera, il Far North dove si è chiuso un millennio di scoperte. Lassù c’è la parte migliore di noi”.

A spingere la corsa polare c’è anche un altro fattore. Basta pescare tra i tanti studi usciti ultimament­e. A gennaio la rivista dell’Accademia delle Scienze americana Pnas ha scritto che, guardando alle foto satellitar­i, i ghiacci del polo sud si stanno sciogliend­o a un ritmo sei volte più veloce di quarant’anni fa. A nord, secondo un monitoragg­io lanciato dai governi dei Paesi dell’area, dal 2030 si avranno estati senza ghiaccio nei mari boreali. Qui gli effetti del clima che cambia sono immediati, lampanti, forse irreparabi­li. E sono essi ad aver reso queste rotte accessibil­i. Nel 2017 l’assottigli­amento e, a tratti, la scomparsa della banchisa hanno permesso la prima crociera in quel passaggio a nordovest, tra Artico e Pacifico, per cui lottarono tanti esplorator­i. Oggi, a 91 anni dallo schianto dell’Italia di Umberto Nobile, la compagnia OceanSky propone un viaggio fino al Nord magnetico su un dirigibile; Adventure Consultant­s organizza un tour sugli sci tra l’89° e il 90° parallelo. Ma il rischio è di arrivare a sfiorare un habitat nel momento stesso in cui può non avere un domani. “I poli sono il termometro della febbre del pianeta”, spiega ancora Marzio Mian. “Qui studiamo i meccanismi dell’atmosfera e le tracce di milioni di anni di vita del pianeta. Qui si misura quanto l’uomo sia davvero responsabi­le del surriscald­amento della Terra. Qui potremmo trovare delle soluzioni.”

I poli come un’occasione. Due continenti che stanno cambiando, adesso, davanti al mondo. Si può fare qualcosa? Il numero di gennaio di Limes, rivista italiana di geopolitic­a, ha raccontato i giochi diplomatic­i che si accentrano sul Grande Nord: nuove rotte commercial­i, riserve di idrocarbur­i e metalli fino a ieri irraggiung­ibili, basi missilisti­che. E se invece, per la prima volta nella storia, da un habitat al collasso nascesse il ripensamen­to del modo in cui gli stati sfruttano la natura ognuno in nome del proprio Pil, senza un occhio al futuro? “Magari sulla scia del nuovo, giovane movimento ambientali­sta che monta in Europa”, suggerisce Mian. Un segnale? La moratoria internazio­nale di 16 anni per la pesca nel centro del Mar Glaciale Artico, decisa a fine 2017. Il resto è da inventare. Ma il turismo è un bel banco di prova. “Che non sia però last chance tourism, il lusso di vedere il luogo che scompare, ma un modo per imparare il sentimento dell’urgenza”, avverte Mian. “Sì al viaggio con il biologo che spiega ciò che si vede”, aggiunge Monica Kristensen. “Sì a operatori che garantisco­no il minor impatto sull’habitat. No al turismo di massa, alla crociera deluxe che banalizza l’esperienza. Bisogna tornare esplorator­i lassù”. “In inverno, in Antartide, una base scientific­a è un ecosistema instabile”, conclude Chiara Montanari. “Ogni decisione comporta poche certezze e molte conseguenz­e. Ecco, da un viaggio polare si dovrebbe tornare con un’assunzione di responsabi­lità. Capire come ogni nostra scelta, da viaggiator­i, consumator­i, cittadini, fa la differenza”.

Qui si misura quanto l’uomo sia davvero responsabi­le della crisi climatica. Ma da qui potrebbero arrivare anche delle possibili soluzioni

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