Verde speranza.
Viaggio in un Paese dove il turismo diventa esperienza solidale, occasione di riscatto, strumento di crescita. Economica e sociale
Siti Unesco, foreste sterminate, ovunque echi della civiltà Maya. Viaggio in un Paese dove il turismo diventa esperienza solidale, occasione di riscatto, strumento di crescita. Economica e sociale
“In Guatemala la gente ha un sorriso che non trovi in nessun’altra parte del mondo. È per la loro allegria che è valsa la pena di restare”. Circondato dall’aroma intenso del primo caffè della giornata, don Lucio Mamberto racconta con una certa emozione quarant’anni di vita passati in questo angolo di Sudamerica senza rimpiangere la sua Liguria. L’hotel, che ha costruito e fatto crescere su una ripida collina poco fuori dal villaggio di Santa Catarina Palopó, gode di una terrazza con piscina che è un incanto: il lago Atitlán, da molti considerato il più bello al mondo, stende il suo drappo di acque blu sotto le pendici dei tre vulcani che lo sorvegliano, l’Atitlán, il San Pedro e il Tolimán. Ma se è vero che artisti e scrittori si sono lasciati ispirare da questo capolavoro, simbolo di un Paese dove la natura ha impresso il proprio marchio d’autore, le parole di don Lucio lasciano intendere una cosa: che la vera ricchezza del Guatemala, forse, sono le stesse persone che lo abitano. E la loro millenaria cultura.
Qui, sulle sponde del lago Atitlán, non è difficile incontrarne le tracce: a eccezione del paese di Panajachel, dove il turismo mostra il suo lato più commerciale, tutti gli altri pueblos, i villaggi, hanno mantenuto intatta la loro atmosfera e le loro peculiarità. Lo si capisce fin dall’arrivo sul molo delle cosiddette lanchas (le piccole imbarcazioni a motore) che fanno la spola tra una sponda e l’altra del lago. Adagiata in un’ansa protetta, la cittadina di Santiago Atitlán è il punto di partenza per scoprire la cultura Maya di etnia tzu’tujil. Le vie del centro sono invase dal mercato, il luogo dove scorre la giornata guatemalteca: avvolte nei coloratissimi huipiles, le tradizionali camicette tessute a mano, le donne scivolano tra banchi di stoffe e verdura fresca, pile di camarones - i gamberi -, pomodori, litchi e avocado, accompagnate dagli “applausi” delle tante mani che, palmo contro palmo, impastano piccole tortillas
di farina di mais. Dopo l’ultima bancarella, si torna nel traffico dei tuk-tuk e dei chicken bus, gli eccentrici scuolabus americani riconvertiti a uso dei locali. Bastano pochi minuti a piedi per ritrovarsi a bordo lago, tra lo schiamazzare dei bimbi, i giochi con l’acqua, e non lontano, le madri che lavano i panni. Molte di loro sono le mogli dei cosiddetti tuleros, i lavoratori infaticabili che da innumerevoli generazioni coltivano il tulle, una pianta acquatica che cresce qui, sulle sponde del lago, fondamentale per l’ecosistema. “Durante la dittatura i militari hanno fatto di tutto per osteggiarci”, spiega Pedro Ramirez Tiney, portavoce del comitato dei tuleros. “Pensavano che la nostra fosse una pianta inutile, volevano cancellare il nostro lavoro e le nostre tradizioni”. Tradizioni che oggi proseguono e si sposano a una moderna coscienza ambientale: “Il filtro verde naturale creato dal tulle protegge le acque del lago da cianobatteri e altri elementi inquinanti”, prosegue, mentre con mani e piedi intreccia il tulle essiccato per formare un largo tappeto chiamato petate, oggetto che ancora oggi, in qualche casa, sostituisce il materasso.
PIANTAGIONI, CREDENZE, FETICCI
L’incontro con Ramirez Tiney è solo una delle tante esperienze con le comunità che i turisti possono fare qui, a Santiago: quello che fino a qualche anno fa veniva visto con diffidenza, ora sta diventando un approccio naturale per conoscere il territorio. Di primo mattino, Miguel Coché Pablo, membro di un’associazione ambientalista locale, guida le escursioni nelle piantagioni di caffè dove si sperimentano coltivazioni a basso impatto ambientale: “Abbiamo abbandonato la monocultura intensiva, aiutando la foresta a ricrescere”, spiega, “e gli alberi di macadamia forniscono alle piante del caffè l’ombra di cui hanno bisogno”. Si cammina nella foresta imparando i nomi di arbusti, riconoscendo il canto degli uccelli (da qualche anno è tornato anche il quetzal, magnifico simbolo del Paese) fino a quando, sul crinale della collina, tra le nubi basse, si scorge una piccola costruzione, la scuola. “Grazie al nostro caffè biologico e agli introiti del turismo cerchiamo di combattere l’analfabetismo”, spiega ancora orgoglioso Coché Pablo.
Sono mossi dalla stessa esigenza di diversificare la propria economia, alternando pesca e gite in barca, pure i pescatori di Santiago, come Nicolás Quiejú: al tramonto mettono in acqua i cayucos, le canoe fatte di tronchi scavati, e pescano assieme ai turisti esemplari di pesce tilapia, da cuocere al rientro, sulla spiaggia, tra racconti di tempeste improvvise e leggendarie. Tornando in hotel, quando il buio avvolge ogni cosa, può capitare di imbattersi nella sede di una delle confraternite religiose che a turno, ogni anno, custodiscono la statua del cosiddetto Maximon, feticcio Maya famoso in tutta l’America Centrale: nella penombra della stanza, tra fiori di cacao, candele accese e profumo di sigari, vale la pena di farsi raccontare la storia di questa scultura in legno, che ha le fattezze di un uomo con una grande maschera,
portata in processione nella Settimana Santa. Per toccare ancora più da vicino le credenze Maya basta prendere una delle piccole imbarcazioni per San Pedro la Laguna, il paesino dall’atmosfera vagamente hippie. A pochi passi da ristoranti e negozi di artigianato, vive Andrea Roché, guida spirituale la cui storia personale sembra uscita da un romanzo: destinata al convento, ha invece scelto di riscoprire le credenze del suo popolo. Niente regole o dogmi, solo il tentativo di ripristinare quel vincolo profondo che unisce la Terra alle sue creature, al cielo e ai suoi temi astrologici. “Ho cresciuto un figlio da sola e contemporaneamente mi sono laureata” racconta, “oggi sono un’insegnante, gestisco una cooperativa femminile e aiuto le donne maya a essere autonome e indipendenti”. Nel suo giardino è possibile scoprire il proprio nahual (il segno zodiacale secondo i Maya), conoscerne le caratteristiche e imparare i segreti della cosmologia. Poi, incantati, si resta a guardarla mentre accende il fuoco e offre in dono alla terra acqua di rose, incenso, tabacco, rosmarino e aguardiente (la tipica bevanda alcolica).
TIKAL, L’EREDITÀ DELLA CIVILTÀ MAYA
Il Guatemala è anche questo: la scoperta di un’umanità autentica che attinge la propria saggezza da un perfetto sincretismo di spiritualità, esperienza e dialogo con la natura. A centinaia di chilometri di distanza, nel nord del Paese, al confine con il Messico, se ne ha la conferma tra i resti più spettacolari che gli antichi abitanti di queste regioni hanno lasciato: Tikal, patrimonio Unesco dal 1979, è uno dei siti archeologici più impressionanti di tutta l’America precolombiana. Un lungo sentiero serpeggia nel mezzo della giungla tra
piante secolari di ceiba, l’albero sacro nazionale del Paese, simile al baobab, e di copal (bruciarne la resina, secondo i Maya, calmava gli dei) e la colonna sonora è quasi surreale: al verso di pappagalli e tucani si unisce il fragore assordante delle scimmie urlatrici, le vere custodi di templi e piramidi, che saltano da un ramo all’altro incuranti dei visitatori. “In effetti, Tikal, ovvero luogo delle voci, è il nome che a metà ‘800 gli archeologi diedero a questo sito”, spiega Alexander Vasquez, giovane guida del parco. “Sembra incredibile, ma solo il 20 per cento delle costruzioni è stato portato alla luce.” Il cuore dell’area è rappresentato dalla Grande Piazza, con le piramidi slanciate poste una di fronte all’altra come guardiani secolari: era il luogo dove incontrarsi, in una città che al massimo del suo splendore contava oltre centomila abitanti. Uno dei panorami migliori si stende davanti al Tempio del serpente bicefalo, poco distante: si risalgono gli enormi blocchi di pietra calcarea (piedra caliza) fino ai 64 metri del suo santuario dal caratteristico tetto a pettine.
Qui si percepisce la vastità della riserva della biosfera Maya, un vero e proprio oceano verde che oggi occupa più del 33 per cento della vasta regione del Petén e che, oltre alle storie di civiltà antiche, nasconde anche quelle del più recente passato guatemalteco. Al km 84 della strada che torna verso la capitale, per esempio, il villaggio di Nuevo Horizonte ospita le famiglie di quegli ex-combattenti che alla fine della guerra civile, rimasti senza nulla e dimenticati dal governo, hanno dato avvio a una cooperativa che oggi si sostiene grazie all’agricoltura, all’allevamento, a piccoli progetti di imprenditoria e anche al turismo. È sufficiente pranzare nel loro piccolo, accogliente gazeboristorante, o seguire Roni e Raul nella selva dove per anni hanno vissuto da guerriglieri, per conoscere sulla storia del Guatemala molto più di quello che un libro di scuola possa mai raccontare. Le loro abitazioni sobrie, ma festose, il mais lasciato nelle verande a seccare, le amache e la radio che gracchia, i murales fuori dalla scuola, la parola libertad ripetuta con un accento così vero e deciso da far credere che l’abbiano coniata qui, sono istantanee di un Guatemala meno turistico che - per un’insolita alchimia - si sposa armonicamente con quello più conosciuto.
ANTIGUA, L’ANTICA CAPITALE
Così, quando si torna sugli altopiani del Quiché, a sud, e si fa sosta al celebre mercato di Chichicastenango, l’occhio è ormai allenato a cogliere particolari e sfumature: l’incenso bruciato dalle donne sul sagrato della chiesa di Santo Tomás, i petali di crisantemo a ricoprirne i gradini, le bancarelle che si stendono fino alla cappella del Calvario, lì di fronte, offrendo stoffe, vasellame e antichi strumenti musicali. Guidati dai suoni di questi ultimi – conchiglie, ocarine, marimbe e chitarre – si arriva al cortile della famiglia Domínguez, su una collina a nord del mercato: José Domingo e i suoi figli accolgono il pubblico con un piatto di saq’por (polenta di mais condita con carote, pollo e guisquil, un ortaggio verde) e lo intrattengono con le musiche rigeneranti della tradizione maya. Il connubio di suoni, sapori e colori si ripete ad Antigua Guatemala (chiamata comunemente Antigua o La Antigua), l’antica capitale, con le campane della cattedrale ad accompagnare il cammino lungo le
A Chichicastenango fu ritrovato, nel 1701, dal sacerdote Francisco Ximénez, il libro sacro della civiltà Maya, Popol Vuh
UN AIUTO ALLE COMUNITÀ
Partecipazione, trasparenza, conoscenza dei territori per valorizzarli: sono questi i principi del turismo responsabile e Alessandro Masini, lasciando l’Italia per trasferirsi in Guatemala, ha voluto farli propri quando ha fondato il progetto The Labyrinth. L’obiettivo è quello di migliorare la qualità di vita delle popolazioni, tutelarne e valorizzarne le identità sociali, culturali e ambientali sostenendone lo sviluppo. “Ognuno viene pagato con un giusto compenso e non secondo il salario minimo sindacale del Guatemala” spiega. “Circa il 65 per cento del costo di ogni itinerario che proponiamo resta nelle comunità locali; abbiamo calcolato che per un gruppo di sette turisti beneficiano 65 famiglie in modo diretto, 620 in modo semidiretto e più di duemila indirettamente. Attraverso un lavoro di sensibilizzazione sulla realtà socio-economica, che coinvolge anche i turisti, siamo riusciti, negli ultimi tre anni, a elargire nove borse di studio, garantendone la continuità fino al termine del processo di formazione”.
vie acciottolate dal fascino decadente. Dopo essere passati sotto l’orologio dell’arco di Santa Catalina, si passeggia fino alla chiesa de La Merced, con i ricami barocchi che si adagiano, come un pizzo bianco avorio, sulla campitura gialla della facciata. Tra giardini e chiostri - quello dell’antico collegio gesuita spicca per le raffinate colonne e i balconi in legno - si giunge poi al Parque Central, da ammirare dalle ringhiere in ferro battuto al piano superiore del Palacio de Ayuntamiento, la sede del municipio.
L’ultima sosta non può che essere dedicata a un buon rum invecchiato e a dell’ottimo cioccolato fondente, mentre fuori dai caffè, al fumo dei sigari si unisce quello che si vede salire in lontananza dal Fuego, il vulcano che custodisce e minaccia la città. Conoscendo la sua furia distruttrice, gli abitanti, da sempre, lo venerano come un dio. Ed è forse in questo connubio di dolcezza e violenza, di solennità e misura, che si nasconde l’essenza segreta del Guatemala.
I villaggi attorno al lago Atitlán sono popolati dall’etnia
Maya e qui si indossano ancora gli abiti tradizionali