L’ISOLA SENZA TEMPO
Nel 2019 Sommarøy balzò agli onori della cronaca per una notizia insolita. Poco prima dell’inizio dell’estate Visit Norway, l’ente del turismo norvegese, diramò un comunicato ufficiale secondo cui gli abitanti dell’isola avevano chiesto alle istituzioni nazionali di abolire la misurazione del tempo sul loro territorio, eliminare l’uso degli orologi e dichiarare una vera e propria time-free zone. Il motivo della petizione, si disse, era da ricercare nella presenza del sole di mezzanotte e della notte polare, fenomeni che nell’Artico scandiscono i ritmi luce-buio in modo diverso rispetto alla gran parte del mondo: tanto valeva liberarsi del giogo degli orari classici delle attività umane. La notizia rimbalzò ben presto sui siti web di alcune tra le più importanti testate internazionali, corredata da foto di decine di orologi appesi sul guardrail del ponte di Sommarøybrua. In realtà era tutto falso. O, meglio, un’originale campagna pubblicitaria di Innovation Norway, ente governativo da cui dipende quello del turismo. Un’idea brillante, ma sin troppo propagandata. Al punto che gli autori della fake news, alla fine, si sono dovuti scusare. visione pacata. Tra le pareti di legno di Bryggejentene, cariche di scaffali colmi di erbe locali e addobbate con oggetti d’arredo dalle tonalità calde, ci si può concedere anche un buon pranzo assaggiando la zuppa di merluzzo nordico seguita da un waffel con multe ,la mora artica, spesso usata per guarnire i dolci.
Un altro ponte a schiena d’asino, che gli abitanti chiamano Sommarøybrua, unisce Kvaløya, ormai alle spalle, a Sommarøya, che, in norvegese, significa isola dell’estate. A Sommarøy si fa base all’accogliente Arctic Hotel, che spunta su una baia gelata punteggiata dalle rorbu, le casette in legno dei pescatori di aringhe e merluzzi. Turismo e pesca, del resto, sono le attività che sostengono l’economia locale. La cucina dell’hotel propone un mix ben calibrato tra ricette internazionali e tipicità locali. Come il brunost, formaggio marrone dall’aspetto simile al mou. Secondo alcuni la sua nascita sarebbe casuale e riconducibile alla dimenticanza di una lattaia, che aveva lasciato troppo a lungo a bollire il latte di capra, poi caramellatosi. Secondo altre fonti, invece, non ci fu alcun errore e il brunost
sarebbe il risultato voluto dell’aggiunta sperimentale di crema al siero di latte. Comunque sia andata, oggi questo formaggio è uno dei principali alimenti norvegesi, usato soprattutto per accompagnare waffel, tartine e sandwich.
All’esterno dell’hotel la temperatura si aggira intorno ai cinque gradi sotto zero, le strade sterrate sono buie e scivolose, ma in cielo inizia già a danzare qualche sparuto pennacchio verde che preannuncia l’arrivo imminente della regina delle luci nordiche. Con una camminata di venti minuti si giunge al cospetto della baia di Fjøsvalen dove, riparato alle spalle da una montagna e affacciato su un piccolo golfo, spunta il Northern Lights Park, rifugio-osservatorio che Halvar Ludwigsen ha costruito con materiali recuperati da scuole e altri edifici dismessi della zona. Dopo aver offerto ai suoi ospiti tè bollente, biscotti al cioccolato e spesse coperte di lana, Ludwigsen fa cenno di uscire: bisogna prepararsi all’appuntamento con l’aurora boreale. Uno spettacolo reso ancora più speciale dal silenzio suggestivo del luogo, interrotto solo dallo scoppiettio
della brace che arde sul limitare della parete rocciosa del fiordo. L’aurora colora il cielo per una manciata di minuti: una bellezza tanto magica quanto effimera. Nei giorni a venire non si mostrerà mai più.
DISTANZE INFINITE
La mattina successiva su Sommarøy cade una luce obliqua che filtra a stento da enormi matasse di nubi. Dal ponte di Sommarøybrua il paese si svela in tutta la sua essenzialità nordica: si contano un porticciolo, un piccolo spaccio alimentare e alcune rimesse per la manutenzione delle barche. Le case sono distanziate le une dalle altre, come se disponessero di tutto lo spazio del mondo. La verità non è così lontana: sulle 50 mila isole norvegesi, che coprono un territorio più vasto di quello italiano, vivono poco più di cinque milioni di persone.
La scarsa urbanizzazione limita anche i servizi: a Sommarøy non ci sono farmacie né medici; per trovare un supermercato dove acquistare cibo e farmaci da banco occorre raggiungere la vicina Brensholmen, che ha anche un minuscolo ufficio postale; se servono cure urgenti o specialistiche bisogna recarsi a Tromsø.
Da maggio a luglio, quando la luce splende tutto il giorno sul Circolo polare artico, non è inusuale vedere turisti e abitanti locali con lo sguardo assorto in direzione di Håja, un isolotto disabitato a poche miglia nautiche da Sommarøya. Si tratta di uno spettacolare strapiombo di 500 metri sul mare, la cui forma a tetto spiovente avrebbe ispirato l’architetto Jan Inge Hovig (1920-1977) per la progettazione della cattedrale di Tromsø. É quasi un rito: le
persone contemplano il sole che incrocia la punta dell’isolotto senza mai calare oltre l’orizzonte.
Ma adesso è inverno, la luce ha vita breve e non c’è molto tempo per tornare indietro e attraversare l’isola di Kvaløya, dove una muta di husky attende impaziente di essere condotta sulle alture innevate di Straumsvegen. Guidando di fiordo in fiordo lungo la strada 858 si attraversano microclimi differenti. I mutamenti meteorologici tra insenature contigue possono risultare stucchevoli: si passa dalla pioggerella uggiosa di Bakkejord alla luminosità di Straumsbukta, che, con le sue palafitte arancioni e turchesi, ricorda un dipinto fiammingo, fino alla nebbia di Straumsvegen, dove Hege G. Hansen e il marito sono proprietari di Arctic Adventure Tours. La coppia gestisce una muta di 200 husky talmente disciplinati che comandare la slitta è facilissimo: è sufficiente spingere in avanti per aizzarli o schiacciare il freno per fermarli. Le soste, innumerevoli durante il tragitto, permettono di scattare foto in un luogo immacolato, dove la neve sembra mescolarsi al cielo. Un unicum in cui l’uomo è relegato a essere una comparsa.
LA NUOVA MELODIA DEL JOIK
In questi luoghi esiste solo un altro animale che vanta un rapporto simbiotico con l’uomo: la renna. Alcuni esemplari, durante il tragitto che porta in uno dei tanti accampamenti Sami sull’isola di Tromsøia, brucano l’erba ai margini della strada. Si tratta di pascoli di proprietà: le uniche renne selvatiche in Norvegia si trovano molto più a nord, alle isole Svalbard. Tutte le altre sono marchiate e assicurate. Spiega Alberto Grohovaz, guida turistica locale: “I premi delle polizze automobilistiche sono molto alti non solo per il tenore di vita norvegese, ma anche per coprire i rischi legati agli investimenti su strada di questi animali. In caso di incidente bisogna rimborsare il proprietario, che di solito è un Sami. Qui la maggior parte dei beni appartiene a loro”.
Questa, d’altronde, è la terra che i Sami hanno conquistato per primi: una landa che si estende fra Norvegia, Svezia, Finlandia e una parte della Carelia. Dal suo nome originario, Sapmi, deriva quello dei suoi colonizzatori, che ancora oggi in tanti chiamano impropriamente lapponi. All’inizio della loro storia, 12 mila anni fa, i Sami si dividevano tra mare e montagna. I primi, oggi quasi
Una delle avventure più divertenti e facili è guidare le slitte trainate dagli husky sulle alture di Straumsvegen
Secondo le credenze mitologiche
dei Sami, le renne custodiscono i segreti dell’universo
del tutto scomparsi, si dedicavano alla pesca, all’agricoltura e furono pionieri nella scoperta delle tecniche per la conservazione dello stoccafisso. Quelli d’altura ebbero una sorte diversa. Con il tempo la loro fama di allevatori di renne crebbe e questi animali iniziarono a essere chiamati con il termine eallu, gregge, molto simile a eallin, che nel vocabolario sami significa vita.
Oggi, al contrario degli antenati, questo popolo è diventato stanziale: ha costruito i suoi allevamenti e vive stabilmente nelle lavvu, tende simili a quelle dei nativi americani. Le oltre 200 mila renne che popolano la Norvegia sono una fonte costante di risorse: la carne dà cibo, la pelle è usata per scarpe e abiti (tra cui il gakti, costume tradizionale a strisce variopinte), le corna sono trasfor
mate in utensili o oggetti artistici chiamati duodji. All’interno delle lavvu, riscaldate da un fuoco corroborante, i Sami invitano i loro ospiti a sedersi e ad assaggiare il bidos, zuppone di patate, cipolle, carote e renna stufata. Poi intonano il joik, canto dalle origini antichissime: leggenda vuole che furono fate e folletti a insegnarne la musica. Una melodia che per un lungo periodo, a partire dal Seicento, fu vietata: i Sami non potevano parlare la propria lingua né cantare i propri inni, nel tentativo di assimilarli alla cultura norvegese. Oggi però godono di ampie tutele e, grazie all’opera di giovani artisti, anche per il joik è iniziata una nuova era, scandita dalla commistione con i ritmi moderni. Cambia un po’ la musica, insomma, ma la tradizione resiste.