PROCIDA | LE IDEE NASCONO QUI
Un arcobaleno di case color pastello, echi di pescatori e marinai, vicoli che profumano di Mediterraneo. Viaggio fra i segreti, le leggende, le ambizioni di questa perla nel golfo di Napoli. Che sarà Capitale della cultura 2022
L’isola dei sogni. Case color pastello, echi di pescatori, vicoli. I segreti della perla del Golfo partenopeo, Capitale della cultura 2022
Una volta lo scrittore Raffaele La Capria la definì “un quartiere di Napoli buttato a mare”. Per certi versi è proprio così: in orario di punta, dal centro città si raggiunge prima Procida in aliscafo (mareggiate permettendo) che la periferia partenopea in auto. Ma basta metterci piede per capire che quest’isola è molto di più. Figlia più piccola del grande golfo a cui appartiene, essa si racconta attraverso i tanti orizzonti che le si spalancano dinnanzi. Il mare aperto richiama la vocazione marittima e i legami con il vasto universo mediterraneo. Poi la terraferma, a est, da Capo Miseno al Vesuvio fino alla penisola sorrentina, con Napoli che si nasconde dietro Marechiaro: è l’orizzonte della prossimità e del mondo che chiama, con i suoi meccanismi dai quali Procida dipende, ma da cui ha sempre cercato di affrancarsi. Infine le isole sorelle – Ischia a ovest e Capri a sud – così diverse, più esclusive, mondane e affollate, sottolineano per contrasto la sua unicità: quell’essere un’isola-paese così densa, genuina e viva, a tratti persino frenetica, ma capace di regalare luoghi e attimi di pace e profonda ispirazione. Già, l’ispirazione: quella che qui hanno cercato e trovato artisti, scrittori, registi e che Procida è pronta a offrire all’Italia intera, ora che è stata scelta come Capitale italiana della cultura per il 2022 (vedere il riquadro a pag. 60). “È la rivincita di tutte le isole minori d’Italia, spesso considerate erroneamente centri marginali”, commentano dal comitato promotore. “Siamo convinti che il concetto di ‘minore’ contenga il senso della profezia, quel cambiamento delle politiche culturali del nostro Paese che tanto auspichiamo”.
PARTENZE E RITORNI
A suo modo, l’arrivo a Marina Grande è la profezia di quanto gli occhi ammireranno: gli edifici pastello addossati l’uno all’altro, le pescherie, la grande insegna dell’Istituto Nautico da cui sono passate intere generazioni di isolani, i bar e le piante di oleandro. Chi è sbarcato, frastornato da tanto dinamismo, si disperde per l’isola rinnovando l’antico ciclo di arrivi e partenze: le strade lastricate si diramano come arterie tra i muri stretti che nascondono alla vista giardini e agrumeti. Elisabetta Montaldo, figlia d’arte, vive sotto le cupole turco-saracene della casa che fu dei suoi nonni, in centro al paese. Dopo aver girato il mondo come costumista per cinema e teatro, ha scelto di tornare a Procida e dedicarsi alla scrittura e alla pittura. “Procida è porto da cui si parte, ma anche darsena a cui si torna”, racconta ripensando alla sua storia, “una darsena che ripara le navi e insieme a esse i dolori dei naviganti che sono stati lontano”. Montaldo ha contribuito al recupero del costume tipico procidano con un lavoro durato dieci anni. E confessa: “Un costume è come un libro aperto; si sfogliano i tessuti, le sete, i ricami come fossero pagine e si scoprono cose che non si trovano nemmeno in un sito archeologico”. Un abito che, trascurato,
rischia di rovinarsi. “Con la stessa metafora potremmo dire che quest’isola è un merletto fragilissimo che miracolosamente tiene: ogni tanto ne cade un pezzo, altre volte ne cresce un altro. Un posto forte, ma anche molto fragile: la sfida è difenderlo”.
Sostenibilità, dunque, è tra le parole chiave per il futuro: lo dimostra il fatto che Procida è stata scelta, insieme all’isola norvegese di Hinnoya, per partecipare al progetto europeo Geographical Islands FlexibiliTy, con l’obiettivo di diventare un’isola completamente indipendente dal punto di vista del fabbisogno energetico pulito. Va in questa direzione anche il boom di biciclette elettriche con cui gran parte dei visitatori sceglie di esplorare Procida e i suoi soli 3,7 chilometri quadrati quasi del tutto pianeggianti. Il punto più alto, e anche il più antico dal punto di vista storico, è quel nido di case strette l’una all’altra che prende il nome di Terra Murata. Dopo una ripida salita panoramica si entra nel borgo medievale dal fascino decadente: a dominarlo è l’enorme complesso cinquecentesco di palazzo D’Avalos, poi trasformato dai Borboni nel carcere che ha influenzato e regolato la vita sull’isola fino alla sua chiusura (1988). “Era un piccolo universo attivissimo: i detenuti lavorava
no come sarti, tintori, calzolai, falegnami e la gente saliva fin quassù per fare acquisti”, svela Michele Scotto Di Gregorio, che nel carcere trovò il suo primo impiego e oggi è uno dei volontari che si prendono cura del parco pubblico nato sul vecchio tenimento agricolo del penitenziario. La riqualificazione del palazzo, da poco passato alla gestione locale, è una delle grandi sfide per il futuro: “Abbiamo lavorato a un progetto da 80 milioni di euro, con cui prevediamo spazi di innovazione ambientale e culturale, oltre che di ricezione turistica”, spiega l’architetto Rosalba Iodice, redattrice del programma di valorizzazione. Per il momento è rimasto tutto com’era: si visitano le celle dai muri scrostati e i cortili interni fino a spingersi sui tetti, dove si gode di una splendida vista sulla costa campana.
Nel piano di tutela si inserisce anche il rifacimento dei terrazzamenti su cui sorgeva il monastero di Santa Margherita Nuova, quasi del tutto crollato nelle acque turchesi di Punta dei Monaci. Sono istantanee di una bellezza precaria e forse per questo ancora più suggestiva: soggetta al pericolo di crolli,
ma per fortuna ancora intatta, è anche una delle costruzioni più importanti di Terra Murata, l’abbazia di San Michele, che con le sue tre cupole resta tenacemente aggrappata alla scogliera di tufo che la ospita da secoli. Di fronte al suo ingresso, nei locali dell’ex Conservatorio delle orfane, Pasquale Lubrano Lavadera ha realizzato uno dei suoi sogni di scrittore ed ex insegnante: dare all’isola una nuova biblioteca pubblica. “Abbiamo salvato centinaia di volumi rimasti abbandonati nel carcere e li abbiamo portati qui, dove diamo voce alla pagine che raccontano di noi”.
Gli echi letterari risuonano ovunque a Procida: oggi passa quasi inosservato, in via Vittorio Emanuele, il cancello della vecchia pensione Eldorado, giardino d’elezione per Elsa Morante, che qui scrisse il suo capolavoro, L’isola di Arturo. A lei, che come nessuno ha saputo restituire l’anima agrodolce di questo lembo di terra vulcanica, è intitolato il belvedere che si eleva sopra il grande arco di sabbia nera della Chiaia. Morante amava passare di qui nelle sue camminate verso Punta Pizzaco, l’ideale per chi vuole allontanarsi dal vociare dei bagnanti e restare seduto sulla roccia in contemplazione del mare. Silenzio, piante di fichi e profumo di capperi invadono anche Punta Solchiaro, tra ville nella macchia e grida di gabbiani. Qui l’architetto napoletano Cesare Buoninconti ha dato forma al suo progetto: un’ecovilla del tutto sostenibile, cura per gli animali, permacultura e orti sinergici per valorizzare tutte le potenzialità di questa terra per certi versi ancora selvaggia. “Uno spazio aperto per chi, anche dall’estero, è interessato a una nuova filosofia di rapporto con l’ambiente, ma anche un’occasione per i bambini delle scuole con cui porto avanti diverse iniziative”.
Meno selvaggia e più addomesticata è la natura delle parule, gli orti coltivati a ortaggi che si aprono tra le case della vicina Marina Chiaiolella: non è difficile scovare, tra le piante di limoni, i resti delle ruote idrauliche con cui si faceva risalire l’acqua dai pozzi artesiani. Sono piccoli segni di vita autentica come questi che rendono indispensabile scoprire Procida palmo a palmo, dandosi tempo e restando in ascolto dei sensi. Così l’isola si sposa con le sue forme: le rocce modellate dal vento dei faraglioni di Ciraccio, le linee morbide e mutevoli dei casali, quelle rette di pergolati e vigneti, le logge e i comignoli delle casette di caccia borboniche. Oppure si rilegge la sua storia a partire dai suoni: lo scampanio delle chiese, il vociare nei vicoli o la semplice pronuncia di quei doppi cognomi tipici della gente di qui, così lunghi e ricercati da sembrare formule scaramantiche. Vale la pena una passeggiata nel cimitero
Sono tante le storie di chi, dopo aver girato il mondo, ha deciso di tornare nell’isola natia. Per ritrovare le origini e il senso della propria vita
comunale, in posizione panoramica, per farne una scorta e immaginare l’isola di un tempo, tra saghe familiari e destini tormentati, come quello della giovane a cui si ispirò Alphonse de Lamartine per il romanzo Graziella (oggi rimasto, per antonomasia, il nome del costume femminile procidano). Scendendo per la strada che costeggia il cimitero, si raggiunge la baia di Pozzo Vecchio, con la forma a ferro di cavallo, scelta da Massimo Troisi per una delle scene più celebri de Il postino. E proprio all’attore e regista napoletano è intitolata la piazzetta di Marina di Corricella, l’antico borgo di pescatori dove si riuniva la troupe a fine giornata. È un variopinto anfiteatro di case sul mare che lo sguardo fatica a contenere nel fitto incastro di archi, terrazzi, cupole e scale a collo di giraffa. Non solo: i gialli, le sfumature di rosa e di rosso, il verde acqua, l’azzurro e il bianco calce sembrano chiamare all’appello tutti i colori sparsi per l’isola.
Oggi le cantine e le grotte di tufo non custodiscono più le barche dei pescatori, ma ospitano negozi e ristoranti. Tuttavia resta – tra le reti stese al sole, nei colpi sordi dei remi e nel brontolio dei gozzi che rientrano in porto – un po’ dell’autentica atmosfera di un tempo. Tra le istituzioni della Corricella c’è Maria Costagliola Lotorchisco, ‘a pescatrice, la prima donna del borgo ad aver
Il filo conduttore delle celebrazioni del 2022 è la sostenibilità ambientale. Uno degli obiettivi è raggiungere la completa autosufficienza energetica
scelto il lavoro più duro. Tutti i giorni esce a pescare tonni e palamite, spesso in compagnia di chi l’ha scelta per un’esperienza di pescaturismo. Passa le ore più calde ai tavolini del suo ristorante a chiacchierare con il vicino Tarcisio Ambrosino di Bruttopilo, ex impresario della moda tornato a Procida per unire, nella vineria letteraria L’isola di Arturo, le sue due passioni: i libri e i freschi vini del sud, ideali per un aperitivo al tramonto, quando i visitatori scendono dalle scalinate e passeggiano sulla banchina. Chi si spinge fin quasi alla fine della baia trova i ripidi gradini di via San Domenico, che in uno strappo conducono in salita Castello. Da qui è un attimo addentrarsi tra le mura del Casale Vascello, la seicentesca borgata tutta volte e scale, il cui grande cortile, le sere d’estate, ospita spettacoli. L’isola è legata anche al teatro: Maria Gloria Bicocchi portò qui esibizioni e artisti internazionali e, dopo una vita tra Firenze e New York, anche lei ha scelto Procida. “È il luogo della solitudine, nonostante sia un’isola popolatissima, e anche, per paradosso, della condivisione, della semplicità, della vita che scorre: un’isola centripeta che parla di sé”. Le ultime parole della giornata, Procida le regala di fronte al mare: il vento che rinfresca al crepuscolo, lo sciabordio delle onde, le case che luccicano come quelle di un presepe.